COP 26, e dopo? 

Giorgio Parisi, Nobel per la fisica, afferma: non è il pianeta a rischio ma la specie umana.

Dopo la grande attenzione mediatica sulla COP 26, è calato il sipario sui cambiamenti climatici lasciando obiettivi sfocati e una grande delusione. La conferenza COP 26 sul clima che si è svolta a Glasgow nello scorso novembre si è chiusa con una sostanziale assenza di  scelte concrete per realizzare l’obiettivo centrale di non andare oltre 1,5 gradi di aumento della temperatura del pianeta.

Hanno pesato negativamente sulla conferenza le pericolose tensioni politiche e militari tra Usa e Cina, appena attenuate dall’incontro tra Kerry e il ministro degli Esteri cinese a Glasgow. Ha pesato anche l’assenza di un protagonismo dell’Unione Europea sul clima, comparsa solo nell’accordo bilaterale con gli Usa per proteggere acciaio e alluminio dalla concorrenza del carbone (altrettanto poco sostenibile).

Di contro, c’è stato l’attivismo di alcuni paesi europei, dediti ad un lavoro di lobbying, come la Francia sul nucleare.

Intanto, il limite di 1,5°C si avvicina sempre più perniciosamente: secondo il Climate Action Tracker, perseguendo le attuali politiche globali si avrà un aumento delle temperature fino a circa 3,6°C, molto oltre gli impegni della conferenza di Glasgow. Non possiamo concederci il lusso di attendere la prossima conferenza in Egitto nel 2022, dobbiamo passare il prima possibile dalla narrazione metafisica ad obiettivi concreti per il clima.

Il 2030 sarà una fondamentale cartina di tornasole per verificare la crescita delle energie rinnovabili e una forte riduzione dell’uso delle energie da fonti fossili, che dovrebbe portare a ridurre  ridurre la CO2 in Europa del 55%. Ciò che verrà realizzato entro il 2025 sarà decisivo per capire se ci avvicineremo agli obiettivi: mancano solo 4 anni! E ancora, entro il 2035 dovrebbe cessare in Europa la produzione di auto con motori a scoppio…

In questa prospettiva, per guidare la transizione del nostro paese da un’economia sostanzialmente ferma, ad un modello innovativo ove al centro ci siano i cambiamenti climatici e l’occupazione legata ai green public works, diventa centrale il PNRR. Per questo strutture pubbliche e imprese devono fortemente scommettere su innovative risposte socio-economiche per rigenerare il tessuto lavorativo, nella cornice di uno quadro non conservatore, non solo italiano ma europeo 

Come sostenuto dall’Osservatorio sulla transizione ecologicaper di più i prezzi delle fonti fossili, soprattutto del gas naturale, sono esplosi, non tanto in rapporto con la ripresa post pandemia, quanto per un’enorme speculazione finanziaria che scommette sull’aumento dei prezzi di questi prodotti, usando come in passato i futures. Gli analisti non hanno spiegazioni per questi aumenti che non hanno fondamento economico ma puramente speculativo”.

Invece, stiamo assistendo ad uno sbalorditivo rialzo del prezzo delle energie fossili che impatterà sul costo della vita delle famiglie italiane.

Tutto ciò per condizionare le scelte europee, per ottenere vantaggi immediati, per rinviare il più possibile la sostituzione dei combustibili fossili nella produzione elettrica. Per sottrarsi alle tensioni sui prezzi delle fonti fossili l’unica strategia possibile è mettere in opera fonti energetiche alternative, fotovoltaico, geotermico, rafforzando l’idroelettrico ed anche conseguire risparmio energetico.

Al traguardo annunciato mesi fa da Cingolani del 70% di fabbisogno energetico ottenuto dalle rinnovabili, con il ritmo attuale ci arriveremo, forse, alla fine del secolo prossimo.

L’Italia ha le risorse finanziarie e le disponibilità private per realizzare uno sprint sulle rinnovabili, impattando positivamente sul mercato dell’energia. Il punto è, ancora una volta, il vero male del Belpaese: gli intoppi burocratici. Perchè non bastano le semplificazioni già decise per sbloccare le autorizzazioni? Le  proposte di collocare offshore ben 40 parchi eolici lontani dalla costa per produrre 17.000 megawatt (dati diTerna) non hanno fatto un solo passo avanti e il fotovoltaico è fermo da 5 anni. Di questo chiediamo conto al ministro. 

Invece di delineare i target da realizzare con precise proposte di realizzazione di centrali rinnovabili e con quali sostegni necessari, il ministro della transizione ecologica (?) ama discutere di nucleare in Italia, dove due referendum popolari hanno detto no alle centrali nucleari. Nel frattempo si stanno accumulando ritardi, con il rischio che si trasformino in un alibi per giustificare il finanziamento delle decisioni più arretrate e retrive di cui si sente parlare. 

La corsa al gas dell’Italia 

Che senso ha dunque costruire o ristrutturare ben 108 centrali a gas  per alimentare le lobby delle fossili invece di spendere senza ulteriori indugi e ritardi i miliardi per le rinnovabili? 

La  corsa coinvolge almeno 108 infrastrutture tra nuove realizzazioni e ampliamenti di centrali a gas, metanodotti, depositi, rigassificatori e nuove richieste sul fronte delle estrazioni di idrocarburi diffusi in quasi tutte le Regioni italiane.

Parliamo di 45 centrali a gas per almeno 11,6 GW di nuova potenza, oggi in fase di valutazione al Ministero dell’ambiente. Quattro di nuova realizzazione – in provincia di Lodi, Caserta, Foggia e Brescia – che si aggiungono alle 4 centrali legate alla riconversione delle centrali a gas di Civitavecchia, Brindisi, La Spezia e Monfalcone. 

Per le altre centrali si tratta di attività di revamping che nella maggior parte dei casi portano ad un aumento della potenza iniziale.

La nuova proposta di tassonomia europea

In questo già poco edificante contesto la Commissione europea ha votato a maggioranza la classificazione delle attività economiche che possono essere considerate sostenibili dal punto di vista ambientale, la cosiddetta tassonomia inserendo gas ed  il nucleare, seppur “a determinate condizioni”. 

Hanno votato contro il provvedimento 3 membri della commissione, ed “espresso riserve” altri 4, tra cui il Commissario europeo per l’economia, Paolo Gentiloni. La decisione è destinata ad avere la forte opposizione degli ambientalisti.

Il provvedimento, però, ora dovrà essere esaminato dal Consiglio e dal Parlamento europeo e, se confermato, entrerà in vigore dal 1° gennaio del 2023. Per il nucleare – nel provvedimento approvato – si tratta di “adottare le migliori tecnologie su piazza e piani per i depositi di rifiuti”. Più stringenti i criteri fissati per il gas: le nuove centrali potranno avere l’etichetta verde Ue, solo “se costruite entro il 2030, e per sostituire impianti a carbone o petrolio in un Paese con chiari impegni politici a intraprendere la transizione”.

Dove sono rimaste le difficili scelte per investire sulle rinnovabili (sole, acqua, vento , terra) per portare avanti gli obiettivi del piano “Fit for 55%”)?

Dove sono i risicati e seppur inidonei impegni assunti dal G20 e dalla COP 26 per contenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi ?

Per queste ragioni il Governo non dovrebbe aderire a questa strategia energetica ora al vaglio del Parlamento europeo, e sulla stessa linea si sono già schierate numerose associazioni ambientaliste e non solo.

Nucleare e gas devono restare fuori dalla tassonomia verde perché non sono fonti rinnovabili e quindi non ne va consentito l’accesso ai finanziamenti del recovery fund: in questo modo l’elenco delle energie rinnovabili (tassonomia) europeo da strumento utile per finanziare attività economiche sostenibili a lungo termine, puntando su eolico e solare, si trasformerebbe in  un ostacolo alla green transition dell’economia e della vita sociale e dirotterebbe le risorse sul gas fossile e sul nucleare.

 

Alessandra Fata (Belluccio), DSC Roma 3 Coordinator 

 

Fonte immagine: Climate Analytics and NewClimate Institute

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