Dalla sedia vuota alla sedia che non c’è: la (in)consistenza politica dell’Unione Europea

Qualcuno si ricorderà che nel 1965 la Francia di De Gaulle ha per lungo tempo bloccato i lavori della CEE, all’epoca regolati dal principio dell’unanimità, adottando la politica della sedia vuota – occasionata dalla proposta di riforma della Politica Agricola Comune della Commissione, che di fatto avrebbe concesso alla CEE una iniziale autonomia finanziaria.

E chi non se lo ricorda può consultare un libro di storia contemporanea, o di storia dell’Unione Europea, oppure stupire Google con questa ricerca e resettare l’algoritmo delle preferenze, che finora mette nella top five dei risultati di ricerca i fondi ancora inesistenti del recovery plan.

Bene. In quella fase della storia, nessuno si sarebbe mai permesso di togliere quella sedia. Anche se essa veniva deliberatamente lasciata vuota da chi aveva diritto ad averla, proprio allo scopo di esercitare un veto.

Chiusa quella fase, nel 1986, finalmente i Paesi Membri – con alcune acrobazie politiche e diplomatiche – giunsero all’adozione dell’Atto Unico Europeo, che da una parte ha istituito il Consiglio Europeo formalizzando i vertici di carattere politico tra gli Stati membri senza specificarne le competenze e in sostanziale conflitto con il Consiglio della CEE (oggi UE), ma d’altra parte ha ridotto l’ambito delle decisioni europee da assumere all’unanimità e per questo ha rappresentato una prima timida ma rivoluzionaria svolta verso l’unione politica.

Reҫep Erdogan invece, che delle vicende europee è assai consapevole, si è volentieri assunto il compito di toglierla, quella sedia. Ne ha lasciata solo una e, nonostante non ci fosse il suo nome sopra, Charles Michel – Presidente di turno del Consiglio dell’UE – si è affrettato ad occuparla, scavalcando Ursula Von der Leyen – Presidente della Commissione Europea, che invece è organo eletto dal Parlamento Europeo.

Esistono dunque (almeno) due questioni: quella diplomatica, relativa ai rapporti tra UE e Turchia, e quella intraeuropea.

Sui rapporti tra UE e Turchia, ci sarebbe tanto da dire ma qui possiamo farla breve: se i servigi di un paese te li compri, vali quanto i denari che gli dai (9 miliardi di Euro per tenere fuori dai confini europei i flussi migratori, confinando esseri umani in campi di concentramento) e ci sarà sempre qualcuno disposto a pagare di più o meglio. Il dittatore turco ha solo offerto una rappresentazione plastica dei rapporti di forza in campo.

Riguardo ai rapporti interni all’Unione Europea, si tratta della nota dinamica per cui le istituzioni europee elettive non hanno alcun peso? Sarebbe bello poter dire semplicemente che è il solito problema dell’Unione Europea, che non è né politica né democratica e che – come affermiamo in DiEM25 – se non sarà democratizzata si disintegrerà.

È tuttavia facile obiettare che questa Europa tecnocratica non si è dimostrata capace di avere una politica sanitaria o di fare un contratto decente per i vaccini, sui quali ha comunque già investito sin dallo scorso anno 2,7 miliardi di Euro, figurarsi se è in grado di avere una politica estera.

Quindi non basterà invocare democrazia in Europa e magari un moto d’orgoglio dei parlamentari europei.

Bisogna spingersi a spiegare che il mantra “è l’Europa che ce lo chiede” è, in realtà, privo di significato, poiché un’Europa che politicamente non esiste non può chiedere alcunché.

E allora chi è che determina le politiche UE se non gli Stati Membri? Cosa pensiamo di poter pretendere se consentiamo che gigantesche multinazionali facciano clamorosi profitti netti, indisturbate dalla fiscalità di alcuno, o se abbiamo consentito al governo Draghi di nascere?

E di che ci lamentiamo se abbiamo accettato che il Recovery Fund fosse di appena 750 mld di Euro (e in gran parte a debito e a breve, e non a lunga scadenza, come invece proponeva già un anno fa DiEM25), mentre gli USA dall’inizio della pandemia ad oggi hanno messo sul tavolo quasi 5000 mld di dollari?

A valle dell’incontro UE-Turchia non sappiamo quasi nulla di cosa si sia discusso in concreto nel vertice e di quali siano stati i suoi esiti. Ci stiamo concentrando sullo sgarbo diplomatico, oggi acuito dalle ingenue (?) dichiarazioni di Draghi, che in conferenza stampa si è concesso di definire Erdogan un dittatore di cui abbiamo bisogno – con un obiettivo non chiaro, se non quello di orientare l’attenzione sull’incidente istituzionale piuttosto che sul merito delle questioni in campo.

Le parole sono importanti e i fatti anche di più.

Ma i fatti purtroppo sono sempre gli stessi, sempre le solite vecchie politiche. Anche del Canale di Suez e di Al Sisi l’Europa, e l’Italia in particolare, hanno bisogno. Ne ha bisogno l’Eni e ne ha bisogno Finmeccanica che all’Egitto vende le fregate militari, prestandogli il denaro che serve attraverso Cassa Depositi e Prestiti e finanche fornendo la garanzia di stato (SACE) sull’acquisto.

Quindi probabilmente questo pensano Draghi e l’UE di Al Sisi, che sarà un altro dittatore di cui abbiamo bisogno. Nonostante Giulio Regeni, Patrick Zaki, Ahmed Samir Santawy e tanti altri i cui nomi non conosciamo. Sulla Libia, poi, Draghi ha addirittura espresso soddisfazione (!) per i salvataggi in mare della Guardia Costiera libica. Salvataggi. Ci vuole coraggio, a definirli così. O cinismo e ipocrisia.

Più Unione politica serve, dunque, non meno. Ma su una nuova Agenda, democraticamente determinata, orientata alla giustizia sociale e ambientale.

Postilla sulle sedie. 

Sin da quando ero piccola, quando penso alle sedie, penso al Boléro di M. Ravel e alla straordinaria potenza della coreografia che ne ha fatto Maurice Béjart. Ma almeno, in quel Boléro, si finiva con lo sbattere le mani sul tavolo e dalle sedie ci si alzava per ballare insieme.

 

Questo articolo è stato scritto da Veralisa Massari, avvocata, componente del coordinamento nazionale dell’Ala Elettorale italiana di DiEM25, il 9 Aprile 2021.

Fotografia: la celebre coreografia di Maurice Béjart del Boléro di M. Ravel in uno scatto di Gregory Batardon.

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