Green New Deal e Coronavirus: Come la Pandemia ha Smascherato i Veri Anti-europeisti

L’emergenza COVID-19 costituisce un fenomeno nn senza precedenti; un avvenimento che è riuscito a smorzare il tempo in un mondo in cui il tempo continuava ad accelerare esponenzialmente, in cui una manciata di anni soleva ormai sovvertire, purtroppo assai sbrigativamente, realtà sedimentatesi nei secoli. Ha intorpidito quel mondo, fatto di tanti record da battere e cose da vendere, le cui strette tempistiche ultra-razionalizzate non sembravano concederci nemmeno lo scorcio di tempo necessario per poterci soffermare, di tanto in tanto, su qualche semplice quesito: che si trattasse di banali curiosità o di dilemmi esistenziali. 
È forse questo l’unico merito della piaga che stiamo vivendo? Averci servito, come prima portata, l’amaro a cui nessuno ancora aveva pensato e che nessuno aveva chiesto? Averci esposto ad un crudo e inesorabile confronto con le contraddizioni su cui si basa buona parte di ciò che consideriamo la nostra normalità? La pandemia targata coronavirus potrebbe infatti agire da straordinario acceleratore dei processi storici, portando al pettine nodi troppo aggrovigliati da poter essere sciolti con i mezzi ideologici e materiali di cui oggi decidiamo di servirci.
Tale constatazione risulta particolarmente veritiera nel caso dell’Unione europea e dell’universo concettuale e istituzionale con cui essa si declina nella realtà; un’organizzazione internazionale la cui mancata definizione ha generato incertezze e insostenibilità risalenti a ben prima dello scoppio della pandemia. E se fino a oggi, grazie a qualche abile trucco e alla natura prevalentemente rarefatta delle grandi emergenze della nostra epoca (cambiamenti climatici, aumento delle disuguaglianze, crisi del debito, ecc.), tali incertezze potevano ancora essere sedate o perlomeno poste in secondo piano, è evidente che il tempo di cogliere il senso del momento storico è arrivato.
Le frizioni tra le élite politiche del vecchio continente a cui stiamo assistendo in questi giorni e il contesto in cui esse si stanno verificando verranno, nel bene o nel male, ricordate nei libri di storia come una delle pietre miliari del percorso di integrazione europea. Toccherà ai leader delle nazioni egemoni dell’Unione decidere di che significato rivestire tale svolta. Le questioni emerse assumono una rilevanza tale da essere in grado di eclissare, da un giorno all’altro, quanto fino a oggi è stato costruito. Contemporaneamente, esse si fanno portatrici di tangibili prospettive di integrazione. Parliamo di criticità con cui, si badi, ci siamo già scontrati in passato, ma la cui portata non si è mai palesata con la stessa intensità in ogni angolo d’Europa; scuotendo, di volta in volta, ben poche sensibilità. Ricordiamo, in particolare, il trattamento riservato alla Grecia durante la (mai terminata) crisi del debito.
Nel 2015 gli stati membri dell’Unione hanno assistito, pressoché impassibili, al colpo di stato finanziario messo in atto dalla Troika, a sua volta timonata dal Ministro delle Finanze tedesco, per piegare la nazione ellenica agli egoismi nazionali di taluni paesi. Oggi la scena si ripete, ma a subire le conseguenze della mancata applicazione del tanto volentieri acclamato quanto astratto principio di solidarietà dell’Unione saranno la maggior parte dei cittadini europei. Gli esiti non devono perciò essere gli stessi. La più grande crisi dal dopoguerra è un’occasione storica, tanto per rendere l’Europa democratica, ecologica e realmente solidale, quanto per la sua definitiva disintegrazione.
Ciò che con veemenza sta emergendo durante queste settimane è l’immediato bisogno di cooperazione e di concreta applicazione del principio di solidarietà a livello europeo. Il coronavirus non conosce confini, e la sua diffusione coinvolge paesi con capacità di assorbimento altamente differenziate. Sono soprattutto i paesi mediterranei a subire sulla propria pelle non solo il rapido diffondersi di una pandemia di cui pochissimi avevano previsto la portata effettiva, ma anche e soprattutto il conseguente collasso dei propri sistemi sanitari: prime vittime del regime di austerità e delle privatizzazioni invocate proprio dall’Unione europea. Per non parlare della montagna di debito pubblico che gli stati in questione hanno accumulato in seguito alla grande recessione e la cui sproporzionata crescita è in buona parte riconducibile alla natura non ottimale dell’Eurozona e agli effetti asimmetrici che ne derivano. 

Giù le maschere


Partendo da questi presupposti pare scontato che, al verificarsi di un’emergenza come quella che stiamo vivendo, sia compito dell’Unione europea fronteggiare con ogni mezzo a sua disposizione, costi quel che costi, gli effetti disastrosi della pandemia. A maggior ragione quando ad essere più duramente colpite sono le sue componenti economicamente più fragili. Ma così non accadde in passato e così, per adesso, non sta accadendo oggi.
I paesi che in questi giorni più strenuamente si oppongono alla condivisione dell’onere dell’inevitabile crescita esponenziale del debito pubblico causata dal coronavirus, la cosiddetta linea rigorista rappresentata dalla Germania merkeliana e dall’Olanda di Rutte, sono gli stessi che in Europa hanno tratto maggior beneficio dall’apertura dei mercati e dall’introduzione della valuta comune. Soprattutto la Germania, sotto la guida dell’intramontabile cancelliera, ha saputo imporre la propria linea sull’operato della BCE, di fatto provvedendo a conservare il più a lungo possibile l’attuale struttura del sistema monetario europeo a beneficio della propria economia. Nel contempo, la mamma orsa d’Europa è riuscita, nel corso degli anni, a costruirsi con attenzione un’immagine di sé che ispirasse fiducia, se non compassione, e che la trasformasse nella paladina par-excellence del progetto di integrazione europea; nella severa ma giusta avvocata delle riforme necessarie alla realizzazione di un’Europa forte e unita.

Angela Merkel e Mark Rutte


Finalmente, coloro che fino a ieri potevano essere scambiati per propugnatori dell’europeismo autentico, o addirittura per possibili futuri protagonisti di un processo di federalizzazione, si sono visti costretti a porre fine alla loro commedia e a levarsi le maschere che per anni avevano indossato, rivelando così le loro più intime ambizioni: coltivare lo status quo attuale per nutrire i propri interessi nazionali. Significative in tal senso sono le recenti dichiarazioni del già menzionato Mark Rutte, il primo ministro olandese che ama recarsi a lavoro in bici. In una recente intervista egli ha dichiarato che “certi paesi vogliono solo soldi, ma non sono disposti ad attuare riforme economiche”. Un chiaro richiamo alle “cicale” mediterranee, le quali, senza attuare gli aggiustamenti necessari, vorrebbero appropriarsi dei sudati risparmi delle “formiche” laboriose del nord. 

Traducendo la terminologia sbiadita di cui ama servirsi la fetta più cinica dell’élite politica europea in un linguaggio più schietto, per “riforme” s’intendono le stesse misure di austerità che già hanno depresso la crescita dei paesi meridionali mettendone in ginocchio i servizi pubblici. L’atteggiamento paternalistico e di sufficienza che caratterizza le dichiarazioni di Rutte è un chiaro e alquanto scoraggiante indicatore del reale grado di solidarietà presente tra i paesi membri dell’Unione. Tanto più se si considera che i Paesi Bassi sono tutt’oggi uno dei paradisi fiscali interni a quest’ultima; attori chiave di schemi di evasione fiscale che minano alla base la stabilità economica della già precaria organizzazione sovranazionale di cui Rutte si considera tra i più virtuosi rappresentanti.
Dopo giorni di incessanti pressioni da parte dei paesi meridionali, il premier ciclofilo ha ritenuto opportuno tendere la mano ai più bisognosi. Purtroppo però, quella che in questi giorni viene definita dai media un’apertura da parte dell’Olanda a un terreno di collaborazione europea, rappresentata dall’impegno di contribuire con 1,2 miliardi ad un “Fondo Coronavirus” da destinare alla sanità, altro non è che l’ennesima fuga da un reale impegno a lungo termine nel segno della collaborazione europea. Singole donazioni come questa sostituiscono il principio di solidarietà con quello della carità.

C’è bisogno di una risposta transnazionale

L’esortazione a favore di un indebitamento comune a livello europeo proveniente da nove paesi dell’Unione – soprattutto mediterranei – è l’unica risposta razionale all’emergenza in atto. Per fare fronte alla crisi sanitaria e sociale provocata dalla pandemia COVID-19 (ma non solo) occorre costruire modelli di cooperazione volti all’istituzionalizzazione del principio di solidarietà europea. Crisi internazionali necessitano di risposte transnazionali, che si tratti di pandemie, di emergenze climatiche o di qualsiasi altro fenomeno la cui portata superi i singoli confini nazionali. Il fondamento logico su cui l’Italia, assieme ad altri otto governi, ha basato la sua proposta per il contrasto alla pandemia è lo stesso su cui poggia il nostro piano europeo di lotta ai cambiamenti climatici e all’aumento delle disuguaglianze sociali, due fenomeni diffusi a livello globale e le cui cause risiedono nell’irrazionale struttura dell’odierna economia globalizzata. Il Green New Deal, il programma politico presentato alle scorse Elezioni europee dal fronte della Primavera Europea e promosso da DiEM25, è l’unico programma di transizione ecologica e di ripresa economica che si impegna di affrontare le emergenze climatica e sociale con la stessa urgenza con cui oggi viene trattata la pandemia in corso. Inoltre, l’emergenza sanitaria provocata dal COVID-19 rappresenta soltanto la punta dell’iceberg. 
La sfida che ci attende in ambito economico una volta superato il periodo di blocco totale sarà, in prospettiva storica, decisamente più impattante. Per questo motivo tornare a parlare di Green New Deal è cosa dovuta, non un insensibile sfruttamento politico delle sofferenze provocate dal virus. Per anni i promotori di un massiccio piano di investimenti verdi per la riconversione ecologica si sono visti sbattere le porte in faccia dalla classe dirigente europea, venendo accusati di essere disposti a mettere in pericolo la (fittizia) efficienza del mercato per dare sfogo a un inutile capriccio ideologico. Oggi, con l’economia globale al collasso, nemmeno quest’ultima assurda giustificazione regge. Un intervento pubblico condotto a livello continentale è essenziale per rilanciare le economie dei paesi colpiti dalla pandemia. L’inevitabile indebitamento pubblico e l’aumento della disoccupazione che ne deriveranno non potranno essere saldate dalle manovre economiche anacronistiche a cui l’Unione europea sembra essere affezionata. Ispirandosi al modello di risanamento che quasi un secolo fa negli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt implementò per risollevare l’economia statunitense dalla più profonda recessione economica che il mondo avesse mai conosciuto (attuando riforme finanziarie, di regolamentazione bancaria e di allocazione pianificata delle risorse), l’Unione europea deve muoversi al più presto, non solo per salvare vite umane e risanare il buco economico in formazione, ma per garantire a se stessa un futuro.

Kosta Marco Juri
Membro del Collettivo Nazionale Italia

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