La crisi nella quale versa la sinistra europea non è soltanto una crisi politica: essa è anche, e soprattutto, la crisi della sua stessa base sociale. Più largamente, la crisi della sinistra coincide con quella della società, ossia dello spazio comune che garantisce la coesistenza degli individui. Restaurare una politica progressista significa dunque restaurare la società in quanto tale. Per fare ciò, è necessario ricostituire sia i partiti della sinistra che la loro base sociale.
Ciononostante, ciò non potrà avvenire semplicemente recuperando il passato. È dunque necessario prendere atto della morte della sinistra storica, senza abbandonarne né gli ideali, né le aspirazioni. Il momento giunto per un nuovo movimento politico, che sappia imparare le lezioni della storia, seguendo tre parole d’ordine: “prossimità”, “comunicazione” e “partecipazione elettorale”. La proposta del Collettivo di Coordinamento di creare un’ala elettorale va esattamente in questa direzione, ed è per questo motivo che dovrebbe essere accolta, almeno nelle sue grandi linee.
All’indomani delle recenti tornate elettorali in vari paesi europei, non possiamo che domandarci se la notizia della morte della sinistra non sia affatto esagerata. Come scrive la professoressa Sheri Berman, in un editoriale pubblicato dal The New York Times, la storica sconfitta subita dal Partito socialdemocratico tedesco (SPD) alle ultime elezioni federali potrebbe aver segnato la fine del quadro politico che ha contraddistinto le società europee sin dalla conclusione della Seconda guerra mondiale.
Un tale quadro si reggeva su due pilastri, ossia un polo socialdemocratico e un polo conservatore. Questi due poli erano in competizione per il governo e incarnavano dunque delle opzioni politiche chiaramente distinguibili, sebbene si accordassero sui principi fondamentali della democrazia liberale e capitalista. Ciononostante, il primo di questi due pilastri è ora sul punto di sgretolarsi, favorendo così l’avanzata di partiti nazional-populisti. Tali partiti sono infatti riusciti a fare presa su dei gruppi sociali e demografici che avevano storicamente sostenuto non soltanto i socialdemocratici, ma la sinistra in generale, come, ad esempio, gli operai, gli studenti, il pubblico impiego o i segmenti più giovani dell’elettorato.
Quest’ultima osservazione ci permette di tirare delle conclusioni allarmanti. In primo luogo, la crisi dei partiti socialdemocratici non è altro che la punta dell’iceberg, la cui base consiste precisamente nella crisi di tutta la sinistra, che va dalla socialdemocrazia classica fino ai partiti verdi e post o neocomunisti. In secondo luogo, tale crisi non è esclusivamente politica, poiché essa tocca la base sociale stessa dei partiti progressisti.
Simili conclusioni sono ulteriormente corroborate dai risultati delle ultime elezioni parlamentari austriache, così come li riporta Benjamin Opratko sul The Jacobin: il blocco delle destre, costituito dal Partito della libertà d’Austria (FPÖ), d’estrema destra, e il Partito popolare austriaco (ÖVP), tradizionalmente moderato, ma mai come ora polarizzato a destra, ha ottenuto il 57,5% dei voti, ossia 103 deputati su 183. L’Austria ha dunque eletto il parlamento più a destra del dopoguerra. Inoltre, dei settori non marginali della sinistra austriaca hanno assecondato la retorica populista e i sentimenti xenofobi che stavano permeando il discorso pubblico, come, ad esempio, il Partito socialdemocratico d’Austria (SPÖ) e la neonata “Lista Pilz”, capeggiata dall’ex deputato verde Peter Pilz. Più a sinistra, i Verdi austriaci non sono riusciti a superare lo sbarramento del 4%, e non hanno dunque eletto alcun deputato, mentre l’alleanza stretta dal Partito comunista d’Austria (KPÖ), dall’ex movimento giovanile dei Verdi e da vari indipendenti di sinistra ha ottenuto meno dell’1% dei voti. Il quadro avrebbe difficilmente potuto essere più fosco.
Che fare, dunque? Per rispondere a questa domanda è necessario comprendere la natura delle relazioni che hanno legato i partiti della sinistra alla loro base sociale. Storicamente, i partiti socialdemocratici, comunisti e verdi sono sempre nati come emanazioni politiche di vigorosi movimenti sociali: sindacati, associazioni mutualistiche operaie, società cooperative, comunità religiose, organizzazioni ecologiste, movimenti anticolonialisti, femministi, per i diritti civili e per quelli delle persone LGBTQ. Tali movimenti non si sono limitati a alimentare la dinamica elettorale dei partiti progressisti, ma hanno pure costruito delle vaste reti sociali, che hanno permesso a coloro che si vedevano privati dei propri diritti di socializzare e di prendere in mano le proprie vite.
Di conseguenza, la crisi della sinistra politica non è altro che l’atto conclusivo d’una tragedia cominciata verso la fine degli anni ’70, il cui senso profondo può essere riassunto dalle parole di Margaret Thatcher: “Come sapete, la società non esiste”. Come osserva lo storico Tony Judt nel suo saggio Guasto è il mondo “ciò a cui abbiamo assistito è stato il trasferimento progressivo di responsabilità pubbliche al settore privato, senza alcun beneficio apprezzabile per la collettività”, il che ha comportato “una difficoltà crescente a comprendere ciò che abbiamo in comune con gli altri”. Ne consegue che restaurare una politica progressista significa restaurare la società in quanto tale, concepita come lo spazio comune nel quale gli individui possano far valere il proprio diritto a una vita buona e dignitosa, grazie alla libera associazione e al sostegno delle istituzioni pubbliche. Ciononostante, quali forze potrebbero essere in grado di raggiungere un obiettivo simile? E in che modo?
Le forze progressiste oggi esistenti sembrano non essere all’altezza di un tale compito. I partiti comunisti occidentali avevano perso una buona parte della propria base sociale ancor prima d’essere sepolti dalla caduta del muro di Berlino. Ad oggi, o sono stati completamente marginalizzati, come il Partito comunista francese (PCF), o si sono allontanati dal campo della sinistra, come gli eredi del Partito comunista italiano (PCI). Quanto ai Verdi, essi hanno rappresentato una speranza di rinnovamento per i movimenti politici progressisti lungo tutti gli anni ’80 e ’90, ispirata anche da nuove forme d’impegno civico. Ciò detto, hanno progressivamente abbandonato le loro radici “alternative”, al fine d’integrarsi completamente nel contesto delle istituzioni esistenti, come dimostrato dalle traiettorie dei Verdi tedeschi e austriaci.
I partiti socialdemocratici hanno a lungo rappresentato il faro dei movimenti politici progressisti in tutta l’Europa occidentale, contribuendo a creare lo stato sociale così come lo conosciamo oggi. Per una strana ironia del destino, negli ultimi due decenni, questi stessi partiti hanno ricoperto un ruolo fondamentale nello smantellamento del sistema che avevano costruito. Ciononostante, la caduta dei partiti socialdemocratici non può essere esclusivamente ricondotta al tradimento delle loro élite. Al contrario, essa è il risultato di due difficoltà strutturali del compromesso fra capitale e lavoro che questi partiti hanno promosso. Come commenta Tony Judt, i partiti socialdemocratici hanno potuto godere d’un “concorso di circostanze molto particolari”, sia dal punto di vista politico che da quello economico, e che erano dunque destinate a svanire. Per di più, essi hanno ancorato la propria azione politica al contesto dello stato nazione, entrato in crisi da almeno una quarantina d’anni. Ciò detto, come ravvivare la tradizione socialdemocratica?
Benché gli ideali morali che hanno ispirato la socialdemocrazia possano senza dubbio rivelarsi utili al fine di restaurare la società, le forze politiche e sociali che hanno incarnato tali ideali sono ormai morte, o in agonia. La rinascita della sinistra necessita dunque d’una nuova forma di movimento politico, che sia capace d’imparare le lezioni della storia. Fra queste, due sono particolarmente importanti. Da un lato, l’azione politica deve essere legata a un pensiero innovativo. Dall’altro, la distanza fra l’azione politica e l’azione sociale deve essere colmata grazie alla partecipazione attiva e alla condivisione delle responsabilità. Un movimento di tale natura dovrà dunque dare una risposta non soltanto alla domanda “che fare?”, ma anche a quella “come farlo?”, ovvero al problema dell’organizzazione in quanto tale.
Tre parole d’ordine sono essenziali a questo proposito. La prima è “prossimità”, poiché questo nuovo movimento avrà bisogno di costituire una base sociale che sia la più ampia possibile, senza rinunciare a dare il proprio apporto ad altri movimenti, che condividono i suoi stessi obiettivi. La seconda è “comunicazione”, perché questo nuovo movimento dovrà, allo stesso tempo, diffondere più largamente possibile i propri valori e le proprie proposte politiche, associando l’attivismo nei media, vecchi e nuovi, a quello nelle strade, così come al porta a porta e a nuove forme d’azione politica. La terza è “partecipazione elettorale”, che, nel contesto d’uno stato democratico, costituisce uno strumento necessario a definire e a rovesciare i rapporti di forza esistenti fra differenti gruppi sociali. Come precedentemente osservato, i “veicoli elettorali” sono storicamente nati come apice d’un lungo processo d’auto-organizzazione, promosso da movimenti sociali che condividevano gli stessi obiettivi a lungo termine. Si potrebbe dedurne che la fase della prossimità e quella della comunicazione dovrebbero essere prioritarie rispetto a quella della partecipazione elettorale.
Ciononostante, come ci insegna Machiavelli, l’azione politica non è altro che il risultato d’una lotta fra la volontà di soggetti politici concreti e delle condizioni mutevoli che quest’ultimi non sono in grado di scegliere. In questa lotta, la scelta dei tempi è essenziale, ancor più in un momento storico in cui le finestre d’opportunità si aprono e si chiudono molto rapidamente.
DiEM25 corrisponde perfettamente al profilo del movimento politico di cui i nostri tempi hanno bisogno. Abbiamo promosso e condiviso delle proposte di rinnovamento dell’Europa che sono, allo stesso tempo, innovative e credibili, senza rinunciare a favorire la partecipazione attiva di cittadini impegnati. Malgrado i nostri difetti, abbiamo fatto dei progressi concreti nella costruzione della base sociale di cui questo nuovo movimento necessita. Ciononostante, i nostri sforzi rischiano d’essere vanificati, a meno che non si riesca a trovare un veicolo politico e elettorale che sia adatto alle nostre idee e alle nostre azioni. È per questo motivo che la proposta di creare un’ala elettorale, avanzata dal Collettivo di Coordinamento, dovrebbe essere accolta, almeno nelle sue grandi linee, visto che riconosce la necessità di costituire un veicolo elettorale che sia strettamente legato a una base sociale e a un movimento politico più vasto, ovvero la necessità di costituire molto più che un partito politico tradizionale.
Ma ciò che più importa è il fatto che questa proposta riconosca la necessità di fare un passo così cruciale esattamente al “momento giusto”, considerate le condizioni nelle quali ci ritroviamo. L’attimo è giunto, dobbiamo coglierlo assieme.
Carpe DiEM!
Volete essere informati delle azioni di DiEM25? Registratevi qui!