Riflessioni sulla Siria

Lorenzo Barella – Corrispondente dal Libano

 

Che cosa sta succedendo in Siria? Questa domanda può dar vita ad una molteplicità di risposte, a seconda del tifo politico e del paradigma di riferimento dell’analista di turno. Certo la situazione è complessa, e come spesso accade, sfugge a risposte semplici e dicotomiche.

Partiamo da un breve riassunto dei fatti, su cui più o meno tutti sono d’accordo. Dopo 13 anni di guerra civile, il regime di Bashar al Assad sembrava aver superato l’urto. Buona parte del paese era tornata sotto il controllo del regime (con l’eccezione della città di Idlib e del nord-est), e il conflitto era ormai congelato. In poco più di 10 giorni, però, si sono susseguiti più fatti e avvenimenti di quanti non se ne siano accumulati nei 5 anni precedenti. Una coalizione di vari gruppi armati opposti al regime, capeggiati dal gruppo islamista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), ha lanciato il 27 novembre scorso un’offensiva fulminea che li ha portati a conquistare prima Aleppo, poi Hama, Homs e infine Damasco, senza incontrare quasi alcuna resistenza da parte dell’esercito siriano. Il cinquantennale regime degli Assad si è così sciolto al sole in meno di due settimane.

Narrazioni contrapposte

E qui l’accordo finisce. Qualcuno a sinistra dirà che le forze ribelli sono marionette dell’imperialismo turco e americano e, addirittura, alleate di Israele. Diranno, inoltre, che HTS e il suo leader al-Julani sono terroristi affiliati ad al Qaeda sotto mentite spoglie, solo per rassicurare l’occidente. Dall’altro lato, vari commentatori che non esitano a bollare Hamas e Hezbollah come terroristi, chiameranno HTS con gli appellativi di ‘ribelli’ o ‘forze d’opposizione’. Tanti commentatori occidentali, che non hanno problemi a giustificare oltre un anno di genocidio a Gaza, celebreranno la vittoria dei diritti umani e la fine di una brutale dittatura invisa (più o meno) all’occidente; tanti tra coloro che giustamente si oppongono all’imperialismo americano diranno invece che la Siria ha solo cambiato padrone, da Assad, Iran e Russia a Stati Uniti e Turchia; gli stessi sottolineeranno che anche Israele ne esce vincitore, visto che il principale canale di rifornimento tra Iran e Hezbollah è stato bloccato. Districarsi tra queste narrazioni contrapposte non è compito facile; e, forse, districarsi non è il punto. Il difetto di queste narrazioni, forse, è proprio quello di voler offrire un disegno univoco, un’interpretazione netta.

Per navigare in questa situazione complessa, piuttosto che emettere giudizi trancianti, proporrei delle riflessioni, magari insufficienti e parziali, ma formulate con la consapevolezza della complessità della questione. Sono comprensibili le preoccupazioni sul destino delle minoranze etnico-religiose siriane, sull’influenza delle forze islamiste, sull’invasione israeliana in corso, sull’agenda americana e turca. Il regime si è dissolto con una tale facilità che sembra impossibile non ci sia qualche più ampio accordo dietro. I russi sembra abbiano convinto Assad ad abbandonare il campo; c’è chi dice perché non volevano intervenire, consumati dalla guerra in Ucraina, e c’è chi crede che abbiano ricevuto qualcosa in cambio dagli Stati Uniti, forse proprio sull’Ucraina. Solo il tempo darà qualche risposta. Stati Uniti e Israele sono riusciti ad isolare ulteriormente l’Iran e a tagliare la via di comunicazione tra quest’ultimo e Hezbollah. Turchia e Qatar aumentano la loro influenza regionale. Nessuno di questi attori è interessato alla libertà del popolo siriano.

La complessità dell’Islam politico

Le milizie anti-Assad sono formate da gruppi variegati e non sarà facile trovare una quadra nella Siria post-Assad. Il gruppo più forte è senz’altro HTS, che nasce dalle ceneri di Jabhat al Nusra, ex branca di al Qaeda in Siria. Il suo leader, al-Julani, in passato vicino sia ad al Qaeda sia all’ISIS, sembra volersi presentare come un leader pragmatico e unitario. Dice di aver rinnegato le tattiche più problematiche degli ex alleati, come il terrorismo e l’uccisione di civili, e ha sottolineato che il futuro della Siria deve basarsi sulla convivenza tra le diverse etnie e confessioni religiose che fanno parte del paese. Che queste dichiarazioni riflettano un effettivo mutamento ideologico, siano solo una mossa puramente strategica, o un misto delle due, non è dato sapere al momento. Rimane però interessante, per non dire fastidioso, come una certa parte della sinistra anche radicale non abbia problemi ad usare con leggerezza termini come ‘terroristi islamici’ e ‘tagliagole’, per mettere sotto lo stesso ombrello gruppi molto diversi tra loro, con agende e ideologie diverse.  La categoria del terrorista barbuto che grida ‘Allahu Akbar’ e si fa esplodere è radicata nell’immaginario collettivo occidentale; un po’ ci spaventa ma su un altro piano ci rassicura, perché ci fa sentire dalla parte del giusto. Ci restituisce una visione del mondo in cui noi siamo il bene opposto alla barbarie. Ci permette di dimenticare che quelle istanze nascono da fenomeni complessi, che includono tra gli altri oppressione e voglia di riscatto. Ci permette di non vedere che l’Islam politico è un fenomeno variegato, che ha lati oscurantisti ma anche lati emancipatori.

A ‘Sinistra’ si è, in parte, riusciti a fare un lavoro di decostruzione della figura del ‘terrorista’ , ma solo quando i ‘terroristi’ erano contro Israele e gli Stati Uniti, come nel caso di Hamas e di Hezbollah, ma se i gruppi in questione sono appoggiati (per motivi strategici, certamente non ideologici) dagli Stati Uniti, ecco che in tanti a sinistra tornano alla tanta familiare categoria del tagliagole jihadista, dimenticando, quindi, che HTS ha avuto un percorso di sviluppo che l’ha portato a prendere posizioni diverse sia da al Qaeda sia dall’ISIS, e che al-Julani non è Abu Bakr al Baghdadi. Nota importante: questo discorso non deve chiaramente essere inteso come una forma di giustificazione ad azioni violente di alcun tipo (che tra l’altro non sono certo prerogativa del terrorismo islamico): la questione è piuttosto che alcune categorie a volte nascondono più di quanto mostrano. Il concetto di ‘terrorista’ serve solo a sollecitare un rifiuto morale, ma non serve a capire cosa effettivamente sia il fenomeno dell’Islam politico. E se vogliamo saperci porre in maniera intelligente in relazione ad un dato fenomeno politico, capirlo nella sua complessità diventa importante.

Repressione e speranza

Seconda riflessione, e forse la più importante in questo momento. Il cinquantennale regime degli Assad è stato una delle più brutali dittature del 20esimo e 21esimo secolo. Prima del 2011, i siriani avevano paura di parlare di politica persino con gli amici, tanto era lungo il braccio dei servizi segreti. Nessuno poteva davvero fidarsi di nessuno. Decenni di repressione sistematica del dissenso, incarcerazioni arbitrarie, torture, massacri. Il 2011 aveva portato in tutta la Siria un vento impensabile di possibilità, di speranza: l’idea che fosse finalmente possibile liberarsi di quella coltre decennale e tornare a respirare. Un popolo, costretto da tempo immemore al quietismo, aveva preso vita e voleva riprendersi tutto. Si era sprigionata un’energia meravigliosa, in quei primi mesi. Ma non credete a me. Andate a parlare con coloro che l’hanno vissuta in prima persona, se ne avete la possibilità e la fortuna; ascoltate quelli che erano in strada a cantare, o a confrontarsi consigli locali che erano stati creati in tutte le città liberate, grandi e piccole, a sperimentare cosa vuol dire fare politica senza un padrone.

E poi lo sappiamo com’è andata. 13 anni di repressioni, massacri, lutti infiniti, guerra, divisioni, famiglie spezzate, vite spezzate. Sofferenze inimmaginabili, e disillusione e rabbia. Una rivoluzione annegata nel sangue e trasformatasi in qualcosa di sporco, una carcassa marcescente da dividersi tra potentati locali e potenze straniere. Il tutto nel sangue di chi in quella rivoluzione, in quella speranza, ci aveva creduto. E anche qui, non credete me. Andate a leggervi le storie di quelli che hanno lottato e hanno scelto di morire liberi piuttosto che vivere schiavi. Leggetevi le storie di Mazen al-Hamada, Abdul Baset al-Sarout, Omar Aziz, e tantissimi altri. Mettete una faccia e una storia su quei numeri. Cercate di capire che cosa hanno provato e, se riuscite anche solo in parte a farlo, ma a farlo davvero, ditemi se non viene la pelle d’oca anche a voi.

Eppure, la notte tra il 6 e il 7 dicembre si è riacceso qualcosa. Vivo con un amico siriano e un altro suo amico era lì, con noi, quella notte. Non sono riusciti a dormire, attaccati alla televisione fino alle 6 del mattino, con Assad che scappava a Mosca e le milizie ribelli che entravano a Damasco. Amici e familiari al telefono con loro. Parlatemi di geopolitica quanto volete, ma ho visto una luce nei loro occhi che nessuno mi può togliere. E lo sanno anche loro che la situazione è complessa, che i rischi sono tanti, che americani, turchi e israeliani stanno gioendo per motivi che nulla hanno a che fare con gli interessi dei siriani. Ma il tiranno è caduto e la speranza si è riaccesa. E in fondo, al di là delle analisi, giuste o sbagliate che siano, la politica è anche e soprattutto questo. E se a sinistra, nel nome di un anti-imperialismo duro e puro, non riusciamo a gioire della fine di una dittatura brutale, se non riusciamo anche solo per un giorno ad empatizzare con i milioni di siriani in strada a festeggiare la fine di una oppressione durata 50 anni, forse abbiamo già perso in partenza.

 

 

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