La nostra è davvero, come spesso si sente sovente ripetere, una Repubblica fondata sulla Resistenza?
L’anniversario è passato un po’ sotto silenzio, ma sono trascorsi 150 anni dal plebiscito con cui (dopo la vittoria del Sì con il 98,89%) Roma è stata annessa all’Italia, probabilmente il vero momento storico in cui il Regno dei Savoia si è trasformato nello Stato italiano come lo conosciamo oggi.
Se analizziamo la storia del nostro Paese in questi 150 anni, e guardiamo alle sue leggi e alle sue istituzioni si può notare l’esistenza di una sostanziale, quanto spesso sottovalutata, continuità tra lo Stato monarchico, con il suo intermezzo del ventennio fascista, e l’attuale Stato repubblicano. Così come la sua identità giuridica anche l’anima profonda dello Stato italiano, nella lunga storia che va dall’annessione di Roma ai giorni nostri, è rimasta immutata e immutabile. Nel bene e nel male.
Lo stesso esercito, la stessa magistratura, la stessa struttura istituzionale, con incarichi non raramente tramandati da padre in figlio.
Ci sono stati innumerevoli cambiamenti istituzionali, l’intermezzo della dittatura fascista, ma lo Stato immanente, il deep state come si chiama altrove, è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Ci sono stati cambiamenti importanti, l’arrivo del suffragio universale e poi il voto alle donne nel 1946, il passaggio dalla monarchia alla repubblica, la triste parentesi in cui per vent’anni (dalle leggi fascistissime del 1925/16 all’elezione della Costituente) la funzione legislativa è stata sottratta al parlamento, c’è stata l’approvazione di una Costituzione più avanzata del Paese reale, ma gli elementi di continuità rimangono maggiori di quelli di discontinuità.
C’è stata continuità a partire dalla figura del capo dello Stato, perché nel passaggio alla repubblica si è semplicemente sostituito a un capo dello stato per diritto di nascita un capo dello stato eletto dal parlamento, ma con poteri e funzioni molto simili. Anche la forma di governo è sempre stata quella parlamentare, con poche varianti dal 1871 a oggi, con la sola eccezione del periodo di cui si è detto.
Mentre intanto lo Stato immanente è stato fedele prima al Re e al suo governo, poi al Duce e al Re, e poi alla Democrazia Cristiana e agli altri partiti dell’establishment governativo e (in parte) all’alleato americano, ma prima di tutto fedele a sé stesso. Perché lo Stato immanente, come altrove, è caratterizzato da un forte senso di appartenenza, che lo porta naturalmente a difendere il “suo” Stato e le sue leggi, come pure a proteggere e conservare i privilegi di quella che Gramsci definiva la società politica: cioè l’insieme dei dirigenti e dei funzionari pubblici.
In questa continuità istituzionale e sostanziale, la barocca e bizzarra (come scrisse Calamandrei) trasformazione dello stato operata sotto il regime fascista non ha rappresentato un fenomeno anomalo ed abnorme, ma una fase in cui l’establishment istituzionale ed economico italiano ha ritenuto utile una parentesi autoritaria, senza per questo cedere al partito fascista e al suo leader tutto il potere reale, come dimostra la stessa vicenda del Mussolini dimissionato e imprigionato senza colpo ferire nel 1943, così com’era stato lasciato salire al potere nel 1922.
Lasciando da parte il caso dello stato fantoccio della Repubblica di Salò, il periodo del fascismo istituzionale dal 1925 al 1943 si è inserito perfettamente nella continuità storica dello Stato italiano, e operando come antitesi hegeliana ha dato origine alla sintesi costituita dal nostro attuale sistema istituzionale, in cui ha lasciato un’impronta indelebile.
Non è un caso che il codice penale e il codice civile, pur con tante modifiche, siano rimasti ancora quelli promulgati al tempo del “Capo del Governo e Duce del fascismo”, e che siano ancora in vigore norme di natura eminentemente autoritarie, come quella della sorveglianza speciale dei semplici sospettati.
Il regime fascista, infatti, con l’appoggio delle istituzioni monarchiche, dell’establishment e del mondo industriale dei grandi latifondisti, ha ammodernato la vecchia struttura statuale ottocentesca che ancora caratterizzava l’Italia, ma l’ha fatto in un senso molto preciso, coerente con la propria ideologia: cancellando gli elementi liberali e di autonomia locale e plasmando la nuova organizzazione statuale in senso autoritario, centralista e accentratore.
Sono caratteristiche che per certi versi lo Stato italiano conserva tuttora, anche se i rimasugli dell’autoritarismo si sono evoluti in un più bonario paternalismo istituzionale, e il dirigismo economico ha lasciato spazio a un laissez faire all’italiana, dove lo Stato interviene nell’economia solo quando c’è bisogno di proteggere determinati interessi o di risolvere conflitti sociali pericolosi per la stabilità del sistema.
Vero è, d’altro canto, che lo Stato immanente spesso si è dimostrato migliore dei governanti di turno, per il forte senso dello stato della sua “aristocrazia”, e ha il merito di avere aiutato il Paese a superare forti divisioni interne e gravi crisi politiche, rappresentando un contraltare di stabilità e indipendenza rispetto al potere politico e alle sue scelte spesso molto discutibili.
“a 150 anni dall’annessione di Roma, è il caso di immaginare uno Stato diverso, in cui il potere reale appartenga alla società civile”
Ma forse, a quasi 150 anni dall’annessione di Roma e dalla nascita del nostro moderno stato nazionale, sarebbe il caso di provare a immaginare di costruire una struttura statale diversa, in cui il potere reale non appartenga alla società politica ma alla società civile, e non solo sulla carta (costituzionale), e realizzare una Repubblica cioè che sia davvero fondata sui valori della Resistenza.
Raniero Bordon, membro NC per l’Italia – coordinatore DSC Vicenza 1
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