Syria calling!

 La crisi siriana è la crisi dell’Europa stessa.

Già alla fine degli anni Venti Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, descriveva così la differenza tra “politica mondiale” e “politica europea”:
“Non sono una stessa cosa. Un duello tra Berlino e Parigi o tra Parigi e Roma non fa del vincitore il padrone del mondo. L’Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente.”.
A qualcosa di simile si riferiva anche, al culmine della Guerra Fredda, l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, ponendo la famosa domanda: ” chi devo chiamare, se voglio parlare con l’Europa?”
Questi due giudizi sul ruolo dell’Europa nella geopolitica globale – per quanto provenienti dagli estremi opposti dello spettro politico – coincidono: non si sa quale sia la voce legittima dell’Europa. Esiste qualcosa come una politica estera comune e unitaria dell’Europa?
Con il rapido deterioramento della crisi in Siria, la domanda acquista una urgenza nuova. Sebbene specifici paesi europei (Francia, Germania, Spagna, Regno Unito) siano già coinvolti in questa lunga guerra –sia attraverso il ricavato della vendita di armi alla Turchia e all’Arabia Saudita, o attraverso l’invio di proprie truppe in Siria – è tuttora impossibile avere un unico numero telefonico per chiamare l’Europa.
Quella del numero telefonico è, ovviamente, una metafora. Ma è utile, poiché mostra come da Gramsci a Kissinger – dall’inizio del XX secolo all’inizio del XXI secolo, da un punto di vista di sinistra e da uno di destra – l’Europa non è mai riuscita ad avere una visione strategica che le permetta di essere un attore rilevante e responsabile nella politica mondiale.
Il futuro della Siria oggi dipende molto più da “Washington e Mosca” piuttosto che dall’Europa, o da qualsiasi singolo stato europeo. E ancora una volta, non è solo Gramsci che era già consapevole di questo problema.
Appena un anno prima della sua morte un altro importante stratega geopolitico, Zbigniew Brzezinski, pubblicò un articolo dal titolo “Toward a Global Realignment” (“verso un riallineamento globale”)
Ciò che Brzezinski giustamente sottolineava nel suo profetico articolo era che attualmente stiamo vivendo nell’epoca di un grande “riallineamento globale”, caratterizzato dalla fine dell’era del dominio globale degli Stati Uniti. Certo, Brzezinski propugna l’idea che gli Stati Uniti assumano un ruolo guida nel riallineamento dell’architettura globale del potere, ma i suoi pensieri sull’Europa sono molto interessanti. In primo luogo, Brzezinski afferma che “l’Europa non è oggi un potere globale, e non è probabile che lo diventi “, e poi aggiunge che essa “può svolgere un ruolo costruttivo assumendo un ruolo guida nei confronti delle minacce transnazionali al benessere globale e persino alla sopravvivenza umana” .
Come si fa a non essere d’accordo con Brzezinski? Certo, il vero significato di questo giudizio emerge quando ci si fa una domanda più difficile: “e dove dovrebbe allinearsi, l’Europa, nel nuovo riallineamento globale?” La risposta di Brzezinski è quasi scontata: dovrebbe allinearsi agli Stati Uniti. La successiva domanda ingenua allora sarebbe: ma quali Stati Uniti?
Quando Brzezinski scriveva il suo articolo profetico, eravamo ben lontani da Donald Trump e dal suo consigliere, il falco John Bolton, eppure egli riuscì a cogliere il problema cruciale dei tempi a venire, e disse, pensando agli Stati Uniti, che “l’alternativa a una visione costruttiva” (che includerebbe la cooperazione con la Russia e la Cina), e “in particolare la ricerca di un risultato unilaterale imposto militarmente e ideologicamente, non può dare altro risultato che una futilità autodistruttiva”.
Oggi – di fronte alla guerra in corso, all’enorme massa di sfollati e rifugiati, e ad una catastrofe ecologica incombente – la posta in gioco è la sopravvivenza umana. Con la superpotenza USA in declino che con il suo intervento in Siria cerca disperatamente di assumere un ruolo guida nell’attuale riallineamento globale, l’Europa ha la responsabilità storica di creare una politica estera comune e sostenibile, basata non sulla fedeltà agli Stati Uniti ma sulla decenza, l’umanità e la diplomazia.
Sfortunatamente, l’attuale politica estera europea può essere meglio descritta come “import-export”. Innanzitutto, noi “esportiamo” le guerre, vendendo armi o andando avanti con i nostri interventi militari. In seguito, “importiamo” i rifugiati, precisamente dalle aree devastate dalle bombe europee e dalle invasioni di truppe europee. Non è la stessa cosa che accadrà dopo l’intervento in Siria? Invece di risolvere il problema strutturale – che è la necessità di un riallineamento globale sostenibile – l’Europa reagisce ancora di rimessa, se si può dire che reagisca.
L’Europa non ha ancora un proprio numero telefonico, nega la sua responsabilità per la costruzione di una migliore politica globale e ignora la sua complicità nella crisi in Siria e in tutto il mondo.
La crisi siriana è la crisi dell’Europa stessa.

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