L’emergenza Coronavirus ha completamente stravolto l’economia italiana. Per la prima volta nel dopoguerra, stiamo assistendo a una graduale sospensione della vita sociale e dell’economia del nostro Paese. Inizialmente erano sospese solo scuole e università, poi sono state sospese le manifestazioni sportive; successivamente l’ennesimo DPCM ha vietato ogni tipo di spostamento: in poche parole, non si può uscire di casa se non per comprovate esigenze lavorative o altre necessità. Che ne è della nostra economia? Ma soprattutto, che ne è della condizione dei lavoratori coinvolti nelle attività che rimarranno aperte?
LA COMPRENSIONE È UN’ UTOPIA.
Il Premier Conte ha annunciato la chiusura di tutte le attività non essenziali al sostentamento del Paese. Supermercati, negozi di alimentari, ristoranti e pizzerie (solo a domicilio), farmacie ed edicole sono solo alcune delle categorie di attività che vengono risparmiate dalle restrizioni imposte dal Governo. Paradossalmente, l’elenco di queste attività che si prospettava molto circoscritto include anche altri settori; tra questi: estrazione di carbone, petrolio greggio e gas naturale; fabbricazione di carta, di imballaggi in legno, di batterie, industrie della plastica, della gomma e dell’acciaio. Per fare un esempio, l’ex-ILVA rimarrà aperta. Il dubbio lecito che ci si può porre è se sia accettabile l’idea che in un momento di emergenza quale quello che stiamo vivendo, sia normale proibire di uscire di casa ed evitare assembramenti di ogni sorta (giustamente) per poi permettere che milioni e milioni di operai e lavoratori in tutta Italia si ritrovino sul posto di lavoro, col rischio di venire contagiati e di esautorare un sistema sanitario nazionale al limite del collasso. È assolutamente una contraddizione obbligare i negozi a rimanere chiusi, per poi lasciare aperte migliaia di fabbriche in tutto il territorio, in barba alle restrizioni e alla prevenzione del contagio. La salute degli operai può davvero essere scavalcata dalla logica del profitto e dal volere di Confindustria? E poi, siamo sicuri che il contagio possa stabilizzarsi con questo blocco parziale delle attività?
QUANDO L’OBBLIGO DI PRODURRE VALE DI PIÙ DEL DIRITTO ALLA SALUTE.
La situazione causata dal Coronavirus, oltre alla velocità spaventosa con la quale si insinua nell’organismo umano, genera panico in molte persone: ebbene, circa 4 milioni di esse rientrano tra le fasce di popolazione costrette a continuare a lavorare; le condizioni di sicurezza non vengono sempre rispettate, molti imprenditori fanno fatica a distribuire dispositivi di protezione personale (mascherine in primis) per tutelare la salute dei propri dipendenti: ne deriva quindi che nella maggior parte dei casi, i dipendenti devono sostenere tali costi indispensabili attingendo dalle proprie tasche. L’ipotesi di chiusura totale delle fabbriche è stata anche avallata dai Presidenti delle Regioni Piemonte e Lombardia, al limite dello stremo. Ma al di là delle richieste di Cirio e Fontana, ciò che conta è la salute degli operai e dei lavoratori, i quali hanno ovviamente annunciato un’ondata di scioperi per indurre il governo centrale a sospendere l’attività di migliaia di stabilimenti non ritenuti essenziali (e che, tra l’altro, avrebbero anche l’occasione di inquinare di meno). Tra questi figurano i benzinai, i quali costituiscono figure di lavoratori che entrano in contatto con una quantità esorbitante di persone al giorno, quindi decisamente esposti al rischio di contagio: le associazioni di categoria come FEGICA FAIB e AINASI sono agguerritissime e hanno minacciato la serrata; momentaneamente tale misura è stata sospesa in seguito a videoconferenze col Ministro Patuanelli, il quale ha promesso “misure per tutelare la categoria”, ponendo “la massima attenzione alle richieste di un settore essenziale”.
Uno scenario simile avviene a Taranto, una terra a cui questa situazione non è certo nuova. Da più di 60 anni, i tarantini sono costretti a scegliere tra il lavoro e la salute; sembrava che, dato che l’emergenza COVID-19 avesse ampliato tale problema su scala nazionale, questa fosse l’occasione per privilegiare la salute e la vita degli operai e dei cittadini di Taranto. Invece, tra le attività essenziali e quindi esenti dalla sospensione temporanea, rientrano anche le industrie che lavorano il coke, per cui anche l’ex-ILVA è libera di continuare a produrre e inquinare. Questo vuol dire che circa 5500 lavoratori dovranno continuare a lavorare, a discapito della tutela della propria salute: scegliendo quindi di mantenere lo stabilimento siderurgico aperto, il Governo e la Prefettura di Taranto si sono caricate una grossa responsabilità. Malgrado le richieste unitarie dei sindacati e le proteste di molte associazioni locali, è stato decretato che anche questa volta il diritto alla salute dei cittadini di Taranto fosse subordinato all’interesse economico: nemmeno il Coronavirus è riuscito a far capire alle istituzioni quali fossero le priorità. Il 29 Marzo un tampone effettuato su un operaio di ArcelorMittal ha riscontrato esito positivo: ciò dimostra che le nostre preoccupazioni e quelle dei lavoratori sono più che fondate e che misure tempestive di tutela alla loro salute sono più che necessarie.
NON SERVE SDOGANARE IL LESSICO BELLICO SE NON C’È CURA VERSO CHI LOTTA.
In sintesi, le proteste continuano e la preoccupazione dilaga. I lavoratori e gli operai, insieme ai rispettivi sindacati, non si sono dati ancora per vinti: la determinazione della classe operaia non si sopisce mai, neanche in piena emergenza, specie di fronte a misure che ne minacciano la vita e la sicurezza. La lotta contro il Coronavirus ci vede tutti coinvolti; ma se si vuole sconfiggere questo nemico invisibile, bisogna ovviamente prevenirlo. Si legge a tal proposito un lessico molto “battagliero”, ispirato alla tradizione militare e bellica: c’è chi parla di una “guerra”, di “trincea”, di “soldati col camice bianco”. Questo tipo di semantica viene ripreso anche dalle stesse autorità: a maggior ragione, chi usa questo linguaggio per giustificare determinate misure (che piacciano o meno, ma necessarie per evitare la diffusione del contagio), dovrebbe sensibilizzarsi al fatto che mancano gli “armamenti”: mancano mascherine, mancano i tamponi, mancano i posti letto (complice anche una decennale politica scellerata caratterizzata da tagli alla sanità, provenienti da destra e da sinistra), manca la tutela della salute di 4 milioni di lavoratori. Se davvero si vuole sconfiggere il virus, se si vuole davvero tornare alla “normalità”, è chiaro che lasciare migliaia di fabbriche aperte costituisca un dis-incentivo a raggiungere questo importante obiettivo. L’interesse economico non può essere la chiave di lettura di questa emergenza, non può scavalcare anche in questa situazione la protezione delle persone. Chiediamo dunque che tale tutela venga rispettata, che i lavoratori possano restare a casa e che ricevano misure sanitarie ed economiche che li sostengano. Se vogliamo vincere il virus, questo è davvero l’unico modo.
Marco Caragnano
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