Le immagini da Lampedusa e il modo in cui i mezzi d’informazione riportano le notizie sugli sbarchi danno l’impressione che da dieci anni a questa parte non sia cambiato nulla, che la cosiddetta “emergenza profughi” e immigrazione sia ancora completamente irrisolta. Fra poche settimane ricorrerà un decennio dal naufragio spaventoso del 3 ottobre 2013, avvenuto proprio di fronte a Lampedusa. Dopo dieci anni, non ha alcun senso continuare a parlare di emergenza.
Di fronte a noi abbiamo un quadro complesso, cui guardare con uno sguardo dall’Europa verso il mondo e viceversa, fuori dalla logica dell’hot-spot, simbolo della visione fallimentare dei governi. Il fenomeno migratorio è un percorso che comincia molto prima della partenza e termina molto dopo lo sbarco, è inutile pensare di “gestirlo” con soluzioni ridicole ed inumane che si occupano solo di una piccola parte del loro viaggio.
Il meccanismo di Dublino a livello europeo è semplicemente inefficace perchè risponde a logiche di equilibri interni tra gli Stati membri, e non alla necessità di affrontare il fenomeno. Cosa che invece saremmo perfettamente in grado di fare.
Lo si è voluto fare con gli immigrati ucraini, trovandosi in pochi mesi a gestire un esodo di dimensioni molto maggiori rispetto a quello degli arrivi da Africa o Asia, e lo si è fatto bene e in modo armonioso.
Come ha detto di recente la regista polacca Agnieszka Holland: “non è che non possiamo, è che non vogliamo”.
Le frontiere aprono e chiudono a intermittenza, per convenienza o per farsi dispetti istituzionali fra i Governi dei diversi Paesi europei.
Si fanno dichiarazioni come quelle recenti di Emmanuel Macron secondo cui l’Europa non si può fare carico della sofferenza del mondo, quando la verità è che per una vita intera noi Paesi europei abbiamo fatto – facciamo ancora – profitti sulla sofferenza del mondo.
A livello italiano poi, il meccanismo legale è ancora più tortuoso, pensato e disegnato per rendere quasi impossibile completare in maniera legale un percorso di accoglienza e ricostruzione di una vita, un ruolo attivo nella società.
I migranti vengono inghiottiti da una costosa palude burocratica, mentre vivono in condizioni disumane nei centri di rimpatrio, o in quelli di accoglienza. I sistemi che in passato avevano dato prova di funzionare sono stati cancellati o criminalizzati. In questo modo il sistema può “dimenticarsi” della loro esistenza, creando così una perenne condizione di emergenza sempre utile in fase elettorale, e un sistema di prebende e disperazione nelle cui pieghe in molti possono arricchirsi.
A Lampedusa a distanza di un decennio vediamo rappresentato in modo esemplare il fatto che le classi dominanti e i Governi pretendono di affrontare il tema dell’immigrazione come si affronta quello dello smaltimento dei rifiuti, con lo stesso distacco e disgusto.
Continuano a cavalcare il paradigma securitario e a criminalizzare, anche lì in modo del tutto irrazionale, chi salva vite umane.
Oggi stiamo discutendo il piano del governo di creare un nuovo centro di detenzione sull’isola: costruito, gestito e mantenuto dall’esercito e secondo logiche militari. La storia ci ha insegnato come si chiamano questi luoghi: campi di concentramento.
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen hanno visitato l’hotspot lampedusiano nei giorni scorsi per uno stunt mediatico, ma rappresentano due facce della stessa medaglia, quella del paradigma economico-politico neoliberista che pensa alle persone come strumenti e al territorio come uno spazio del dominio.
È la logica della “Fortezza Europa” che ben conosciamo: una logica non solo disumana e crudele ma perfino inefficace a perseguire gli scopi di chi la propone, a meno che questi scopi non siano morte e caos.
Esistono singole esperienze, in Europa come in Italia, che ci aiutano a poter ripensare l’accoglienza in chiave più umana e meno burocratico/securitaria.
Pensiamo per esempio all’esperienza di Riace diretta da Mimmo Lucano, senza andare troppo lontano.
E’ necessaria una vera rivoluzione nel modo in cui guardiamo e gestiamo l’amministrazione pubblica che si occupa di persone straniere, che permetta di semplificare le procedure per i permessi di soggiorno, che abolisca i centri di rimpatrio e trasformi radicalmente la funzione degli hot-spot. Ma tutto questo significa possedere una visione d’assieme che innanzitutto parta dalla consapevolezza che il sistema dell’accoglienza non è tutto. Bisogna occuparsi del viaggio, del senso più profondo e ampio delle migrazioni e delle crisi da cui derivano. Cooperare con le realtà che si trovano in Africa e in Asia, per far sì che i conflitti e le contraddizioni sistemiche che producono emigrazione vengano superati e che per esempio la ricchezza non sia più tutta in mano all’1% della popolazione mondiale.
Che la giustizia sociale si faccia strada e che si mettano finalmente le basi per un’Europa delle persone e non più degli oligarchi o delle élite.
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