La nuova bomba sociale pronta ad esplodere: la sanità

Uno dei temi che sarà (deve esserlo) cardine del 2023 è la sanità!
Argomento principale dei dibattiti che stanno occupando le campagne elettorali per le regionali che avranno luogo la settimana prossima e una delle competenze principali oggetto della riforma per l’Autonomia differenziata “SpaccaItalia” che Calderoli ha appena consegnato in Consiglio dei Ministri, la tanto vituperata Sanità pubblica è un tesoro che dovremo imparare a difendere con i denti per non finire completamente sguarniti e in balìa dei privati a cui in tantissimi non possono permettersi di accedere.
Tre sono gli elementi che stanno dando una pericolosa accelerata ad uno degli smantellamenti del welfare pubblico più pesanti che stiamo vivendo: sia in termini di risorse che di conseguenze.
– La pandemia ha certamente mostrato tutte le falle di un servizio sanitario nazionale già in sofferenza dopo anni di “razionalizzazione” e “piani di rientro”, ma ciò che è seguito, per dipendenti pubblici e servizi erogati, è stato un mancato ritorno a dei livelli accettabili di assistenza sia per i pazienti affetti da cronicità  che da malattie oncologiche, che i cittadini che avrebbero dovuto usufruire di un regolare piano di diagnostica e che si sono trovati di fronte una sanità a pezzi e in assoluta emergenza.

– La lenta trasformazione delle infrastrutture sanitarie che, grazie all’avanzamento tecnologico della medicina, sta sempre più trasformando gli ospedali in centri per il trattamento delle acuzie, trasferendo alla medicina territoriale la diagnostica e le cronicità, medicina territoriale che però non sta trovando neanche lontanamente i fondi e gli stanziamenti necessari a far fronte al carico che le si propone.

– La riforma costituzionale per l’autonomia differenziata che il Governo sta portando i ntutta fretta in discussione alla Camera sarà il colpo finale per la garanzia nazionale di livelli di erogazione del servizio minimi, lasciando le regioni più povere a loro stesse con l’alibi della mancanza di fondi regionali per poter tenere in piedi un servizio essenziale.

Il settore ospedaliero soffre particolarmente per la mancanza di personale. Oltre ai pensionamenti, dopo la crisi di Covid, a causa del degrado delle condizioni di lavoro, l’emorragia di professionisti della sanità pubblica è accelerata. Alcuni reparti, come il pronto soccorso, i reparti di maternità e la psichiatria sono particolarmente colpiti. Molti interventi chirurgici, in tutti i reparti, vengono rinviati, con conseguente perdita di opportunità per i pazienti.

In Italia, “ogni giorno sette medici lasciano il servizio sanitario nazionale”, ha dichiarato a Medscape Pierino di Silverio, neoeletto segretario nazionale del principale sindacato degli ospedalieri pubblici ANAAO-ASSOMED. Inoltre, secondo i dati preliminari, nei prossimi cinque anni si prevede che circa 40.000 medici del SSN andranno in pensione o si dimetteranno. Un numero enorme, considerando che, secondo l’ultimo rapporto del Ministero della Salute italiano, il numero totale di medici che lavorano per il servizio pubblico era di 103.092 nel 2019.

Le condizioni di lavoro si stanno deteriorando a causa del sovraccarico di lavoro e dell’organizzazione inadeguata, e la retribuzione è insufficiente, soprattutto se si considerano i numerosi obblighi e le incompatibilità imposte ai medici che lavorano negli ospedali pubblici.

Il calo di risorse

La NADEF del 2022 prevedeva una costante diminuzione della spesa sanitaria di oltre 5 miliardi in un biennio. Quando parliamo di NADEF non parliamo di scartoffie squisitamente tecniche, bensì del più appropriato strumento per valutare la direzione della politica economica di un Governo, una direzione che verrà poi elaborata con maggiore dettaglio nella Legge di bilancio. Ebbene, l’ultima NADEF ha previsto una riduzione sostanziosa della spesa sanitaria sul PIL dal 7% al 6%. Quanto questi tagli siano rilevanti lo si coglie se si pensa che tra il 2001 e il 2019, e dunque in un lasso di tempo che considera anche gli anni feroci del Governo Monti, la spesa per la sanità pubblica era stata in media pari al 6,5% del PIL, superiore a quella che il Governo Meloni prevede di stanziare a regime dal 2025.

Si potrà obiettare che la Legge di bilancio dello scorso dicembre ha aumentato il finanziamento del Fondo sanitario nazionale di circa 2 miliardi all’anno per i prossimi tre anni. Tuttavia, questi fondi andranno a coprire principalmente l’aumento del costo dell’energia per le strutture sanitarie, tant’è che hanno scontentato sia le Regioni, che chiedevano più finanziamento anche per il solo aumento dei costi dell’energia, che i sindacati dei medici i quali hanno parlato di “briciole” e minacciato lo stato d’agitazione. Secondo i Presidenti di Regione, infatti, considerando l’inflazione gli stanziamenti del Governo equivalgono a tagli alla Spesa sanitaria reale per il 13%. Facciamo un rapido calcolo esemplificativo: se per far funzionare un ospedale servivano, prima dell’impennata dei prezzi, 1 milione di euro l’anno, e oggi, alla luce dell’inflazione, ne occorrono 1 milione e 200 mila per mantenere gli stessi standard ai cittadini, un aumento del finanziamento pubblico di 100 mila euro si traduce in un taglio in termini reali di pari importo (100 mila euro di beni e servizi in meno).

Cosa significa nel concreto questo definanziamento è esperienza comune per chiunque sia dovuto ricorrere a servizi sanitari in questi anni: chiusura di ospedali e pronto soccorso, con cronica carenza di posti letto (3,1 posti ogni mille abitanti, mentre la media negli altri paesi europei è di 5 posti letto ogni 1000 abitanti, oltre il 60% in più). Tempi di attesa infiniti: si va (in media, ma in molte Regioni è anche peggio) dai 56 giorni per una visita ortopedica fino ai 74 giorni per un eco-doppler o 96 giorni per una colonscopia, tempi di attesa che magicamente spariscono per chi può ricorrere al privato, anche in convenzione. E infatti, al taglio della spesa pubblica per la sanità corrisponde plasticamente, per chi può permetterselo, un incremento della spesa privata, che arriva alla cifra di 640 euro procapite (ma mai come in questo caso la media non fa giustizia delle diseguaglianze sociali e territoriali). Un quadro impietoso della sanità italiana emerge anche dal XVIII Rapporto sulla Sanità predisposto dal Centro per la Ricerca Economica Applicata in sanità (CREA): stando a questo studio, per colmare il divario con la media europea bisognerebbe assumere 30 mila medici e 250 mila infermieri. La situazione è talmente grave da far parlare di desertificazione sanitaria. Tenendo conto della necessità di sostituire i circa 12 mila medici che vanno in pensione ogni anno sarebbe dunque necessario assumere, per i prossimi 10 anni, almeno 15 mila camici bianchi all’anno. Il raggiungimento di questo obiettivo richiederebbe un investimento di 30,5 miliardi di euro, chiaramente incompatibile con l’attuale orientamento del Governo che, invece promuovere l’ennesima stagione di tagli.

Ecco spiegato l’arcano: la drammatica situazione in cui versa la sanità italiana non è figlia di presunte inefficienze o sprechi, ma piuttosto del sottofinanziamento deciso e imposto dai governanti, in ossequio ad anni di austerità di matrice europea. Il Governo Meloni è l’esempio più chiaro di scelte politiche che cercano di spolpare al massimo la sanità pubblica, permettendo alla sanità privata e al profitto di prosperare. Il tutto in ossequio a un dogma molto più importante della salute e della vita umana: quello dell’austerità. Ancora una volta, la necessità di rispettare i vincoli di bilancio, espressa nero su bianco anche dalla premier Meloni, da un lato condanna la sanità e gli altri servizi pubblici al sottodimensionamento, favorendo allo stesso tempo l’iniziativa e i profitti dei privati, dall’altro fornisce al Governo la leva per applicare le retrive politiche contro i lavoratori e contro tutti i brandelli di Stato sociale che sono rimasti nel nostro Paese.

Nel resto d’Europa

In Inghilterra, 25.000 infermieri o ostetriche che lavorano nel settore pubblico si sono licenziati lo scorso anno, mentre 47.000 posti di infermiere non sono attualmente coperti, secondo il loro sindacato, il Royal College of Nursing (RCN), che descrive la situazione di “infermieri esausti e sottopagati”. A riprova della scarsa attrattiva della professione, il sindacato avverte che il numero di studenti di infermieristica è in calo.

La disaffezione riguarda tutti i settori del sistema sanitario pubblico (NHS). Nel 2022 ci saranno in totale più di 132.000 posti vacanti nel settore sanitario, il 25% in più rispetto al 2021. Per quanto riguarda i medici, ci sono 10.000 posizioni non coperte, con un aumento del 32% in un anno. Questa situazione mette ulteriore pressione sul personale attivo, che potrebbe essere tentato di lasciare il servizio pubblico.

Il comitato per la salute e l’assistenza sociale collegato al Parlamento britannico la definisce “la più grande crisi della forza lavoro nella storia del servizio sanitario nazionale”, una situazione che rappresenta “un serio rischio per la sicurezza del personale e dei pazienti”.

Anche in Francia, tra gli infermieri, i licenziamenti sono diventati numerosi e le assunzioni più rare, soprattutto dopo il Covid-19. Anche in Germania la gestione dell’epidemia di Covid-19 ha portato a un aumento delle dimissioni o delle interruzioni del lavoro, indebolendo il sistema sanitario. L’anno scorso, 35.000 posizioni di personale sanitario erano vacanti in tutto il Paese, con un aumento del 40% in un decennio, secondo uno studio condotto per il Ministero dell’Economia tedesco.

Secondo un sondaggio condotto tra gli ospedali tedeschi con più di 50 posti letto, il 90% di essi ha descritto una carenza di personale superiore al normale. Nella metà delle strutture, le interruzioni del lavoro sono aumentate dal 5 al 20% nel 2022. Di conseguenza, la carenza di personale sta portando alla chiusura di alcuni reparti di emergenza. Anche in pediatria la situazione è diventata molto tesa in Germania, come altrove, poiché un’epidemia di bronchiolite ha colpito duramente i reparti di terapia intensiva, con capacità insufficienti, a causa della mancanza di personale, per far fronte all’afflusso di giovani pazienti.

 

Bomba a orologeria

“Carenza di personale, reclutamento e mantenimento insufficienti, migrazione di personale qualificato, condizioni di lavoro poco attraenti e mancanza di accesso alle opportunità di formazione continua sono tutti fattori che affliggono i sistemi sanitari”, afferma Hans Henri Kluge, Direttore dell’OMS Europa.

Secondo lui, tutte queste minacce ai sistemi sanitari europei rappresentano “una bomba a orologeria”, che potrebbe “portare a gravi conseguenze per la salute, a lunghi tempi di attesa per le cure, a molti decessi evitabili e persino al collasso dei sistemi sanitari”.

Un medico ospedaliero costa alla sua ASL 80 mila euro lordi l’anno per il lavoro ordinario; nelle specializzazioni meno gravose per ritmi di lavoro, a parità di ore lavorate un medico di cooperativa costa 30 mila euro in più, e per giunta l’ospedale non può disporne per il lavoro straordinario a cui invece sono obbligati i dipendenti, come ad esempio le “pronte disponibilità” per le urgenze/emergenze, e che sono ancor più sottopagati. Inoltre, il medico di cooperativa decide in accordo con la stessa (e non con l’amministrazione né con il direttore del reparto) le ore che ritiene di voler lavorare. È tutto qui il segreto del boom delle coop negli ospedali pubblici: oltre 40 mila turni l’anno appaltati in Lombardia e Veneto, specie in Pronto soccorso e tra gli anestesisti come testimonia un articolo di Dataroom del Corsera. Nello stesso articolo si apprende che i dati sull’impatto delle coop sono offerti solo da regioni del Nord. Manca un quadro nazionale. Che proviamo a tracciare, insieme ad un ritratto del fenomeno, con Alessandro Vergallo, presidente degli anestesisti rianimatori di Aaroi-Emac. «Il Servizio sanitario ancora ad inizio millennio impediva i contratti atipici negli ospedali pubblici», spiega Vergallo. «Il decreto legislativo 165 del 2001 all’articolo 36 vieta ancora per la dirigenza, medica e no, i contratti diversi dalla dipendenza stabilita nel contratto nazionale, come anche le leggi successive (dlgs 150/2011, dl 75 del 2017). Ma a partire dal 2008 l’ordinamento normativo ha reso Asl e ospedali enti “di natura privatistica”, e così tra l’altro anche la responsabilità erariale per la maggior spesa dovuta agli appalti di lavoro privato nel pubblico ha trovato il modo di essere elusa».

La contrattazione nel pubblico impiego ospedaliero è stata al ribasso negli ultimi 14 anni, con adeguamenti stipendiali ad ogni rinnovo sempre inferiori all’inflazione, e quindi il lavoro dipendente si è fatto così poco attrattivo che i neo-specialisti non si presentano ai concorsi pubblici, e persino i medici più anziani si dimettono dal pubblico impiego, per lavorare come liberi professionisti anche e soprattutto negli ospedali pubblici. La volontà di risparmiare sul costo del lavoro dipendente ha fatto sì che per tenere aperti i reparti i manager dovessero rivolgersi a fornitori esterni pagando le stesse prestazioni a cifre molto più alte.

Perché le coop stanno prevalendo sugli ingaggi di singoli medici?
Se un ospedale ha un reparto sguarnito di medici, la coop provvede ad organizzare tutto, e li offre già pronti a lavorare in base alle disponibilità orarie che essi stessi decidono, in tal modo sostituendosi a tutta la macchina anche amministrativa ospedaliera, che non si è rivelata in grado di gestire un simile puzzle in ogni reparto carente.

Per il lavoro “ordinario” il medico dipendente costa circa in media circa 99 mila euro, oneri riflessi compresi, garantendo per contratto almeno 1500 ore annue. La paga oraria del medico della coop si attesta fra 100 e 120 euro lordi l’ora; quindi, l’esborso annuale finale per ciascuna sostituzione di un medico dipendente con uno delle coop arriva nei reparti più impegnativi a 180 mila euro, in pratica il doppio. Ma i medici delle coop sono svincolati da tutta la mole di lavoro correlata alle esigenze di lavoro straordinario, lavoro che oltretutto -come nel caso delle pronte disponibilità – al medico dipendente è pagato ancora meno, e che soprattutto rende sempre più insostenibile la conciliazione con la vita privata. A conti fatti, il medico dipendente all’Asl costa alla fine 3,5 volte meno del medico libero professionista, che quando si affida alle coop riesce paradossalmente, se vuole lavorare di meno con un guadagno netto simile, ad avere molto più tempo libero e molto più benessere.

Il colpo finale

A tutto questo si aggiunge infine la proposta di riforma per l’autonomia differenziata che è inevitabilmente destinata ad amplificare le diseguaglianze di un SSN, già oggi universalistico ed equo solo sulla carta.

L’eventuale attuazione del regionalismo differenziato in sanità non potrà che aumentare il gap strutturale tra Nord e Sud del Paese, stanti gli attuali criteri di riparto del Fabbisogno Sanitario Nazionale e riducendo le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni. Perché i princìpi ispiratori del federalismo, volti alla piena applicazione del principio di sussidiarietà e a migliorare l’efficienza amministrativa, dovrebbero salvaguardare la capacità di redistribuzione del reddito per consentire a tutte le persone l’esercizio dei diritti costituzionali fondamentali, in particolare il diritto alla tutela della salute. Altrimenti, la sanità rischia di diventare un bene pubblico per i residenti in una Regione del Nord e un bene di consumo per le altre regioni se i loro cittadini hanno bisogno di accedervi. Quel che è certo è che il regionalismo differenziato non potrà mai ridurre le diseguaglianze, perché renderà le Regioni del Centro-Sud – che avranno sempre meno risorse per riqualificare i loro servizi – “clienti” dei servizi prodotti dalle Regioni del Nord.

Stiamo combattendo su tantissimi fronti. E’ dura, è difficile e faticoso ma la lotta per salvare la sanità è letteralmente una lotta che – se persa -potrebeb costarci la vita.
Mera25 Italia lotterà insieme a voi per una riforma della medicina territoriale – oggi inderogabile -, un corretto aumento dello stanziamento di fondi per la  sanità, una riforma per limitare o impedire l’impiego dei medici a gettone e una corretta contrattazione per il pubblico impiego ospedaliero, per fermare questa riforma costituzionale che abbandonerebbe la maggioranza dei cittadini ad un destino di mobilità sanitaria sempre più impietosa ed ad un futuro di assicurazioni e sanità privata come negli Stati Uniti che garantisce un welfare privato per chi ha un buon lavoro e manda in bancarotta chiunque abbia un incidente o una malattia invalidante.

Mera25 lotterà perchè questi valori siano instituiti in un capitolo europeo che possa finalmente armonizzare e garantire un livello minimo di assistenza in tutti i Paesi Europei che sia degno di una democrazia.

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