Riapriamo le Università agli studenti

L’ultimo DPCM, datato 11 giugno, fa un deciso passo verso la fine di tutte le limitazioni a scopo precauzionale, adottate per interrompere i contagi da Covid-19, ma non interrompe l’incertezza rispetto alla riapertura dei luoghi del sapere. Infatti per le attività didattiche in presenza nelle scuole di ogni ordine e grado, per la formazione superiore e per le Università e le Istituzioni di Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica e i master, continua la sospensione. Il MIUR ha anticipato che la riapertura per le scuole primarie e secondarie potrebbe essere indicativamente il 14 settembre, ma per l’Università si fa strada un orientamento 5.0 che dà preminenza alla formazione a distanza. Ciò restituisce l’immagine di un Paese che mette la formazione “empatica”, quella che permette lo scambio di conoscenza e coscienza critica tra docenti e discenti e la socialità tra studenti all’ultimo posto nella scala di priorità della ripartenza.

Non è dato capire di chi sia la responsabilità di questa scelta, e se vi siano valide ragioni scientifiche che giustifichino l’applicazione del principio di massima precauzione solo al sistema educativo.

Se certe scelte non fossero dettate (più probabilmente) dall’improvvisazione, si potrebbe supporre che la scelta di tenere chiuse le porte degli istituti di istruzione sia dettata dall’aver sposato la visione – ben presente nel rapporto finale della task force Colao – favorevole alla didattica a distanza, come modalità sostitutiva delle lezioni in presenza.

Quella visione che persegue iniziative di “upskilling” (cofinanziate da pubblico e privato), e che fa leva su PC/supporti informatici per didattica a distanza regalati da imprese e con una sempre maggiore partecipazione delle grandi aziende high-tech (sulle cui piattaforme si è retta la gestione di lezioni e esami durante la fase del lock down). Questo orientamento verso l’Università 5.0 sta quindi assumendo la forma di un cambio di paradigma educativo, che potrebbe essere funzionale a una cristallizzazione della grande precarietà lavorativa che caratterizza il comparto dell’università e della ricerca, dove a ogni figura in organico corrispondono 1,5 figure con contratti precari.

Ma la protesta non tarderà a farsi sentire, Giovedì 25 giugno, perché non si può privare gli studenti dell’insegnamento e del confronto in presenza, e ancor di più adesso, quando in gran parte del paese l’epidemia appare in via di scomparsa e si ritorna, con prudenza, alla normalità.

Per tutto, tranne che per le Univerisità.

 

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