DIEM25: SOLO L'EUROPA PUO' SALVARE TARANTO. CON IL GREEN NEW DEAL

“Mentre in tutto il mondo milioni di persone scendono in piazza per chiedere l’azzeramento delle emissioni ed il totale abbandono dei combustibili fossili, a Taranto si continua a voler tenere in vita una fabbrica ormai obsoleta, fatiscente, con impianti pericolosi e sotto sequestro, che non può essere in alcun modo ambientalizzata poiché troppo grande e troppo vicino alla città. Ilva, lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, attualmente gestito dalla multinazionale ArcelorMittal, è una fabbrica a ciclo integrale. Ciò comporta l’importazione e la lavorazione delle materie prime come carbone ed altri minerali ferrosi. Ilva è attualmente un Climate Monster, in quanto è la prima fonte di Co2 in Italia, come certifica uno studio di Peacelink (https://www.peacelink.it/ecologia/a/46868.html), con oltre 10milioni di tonnellate/anno di Co2.

La posizione del DSC di Taranto è radicale e prevede la chiusura di tutte le fonti inquinanti, a partire dallo stabilimento Ilva, con conseguente smantellamento degli impianti, bonifiche e decontaminazione dei terreni inquinati reimpiegando l’attuale forza lavoro. 

La chiusura e la riconversione sono l’unico modo per ripristinare la legalità, salvaguardare l’ambiente, tutelare la salute e spezzare il ricatto occupazionale. 

C’è bisogno per Taranto di una visione di futuro differente, un Green New Deal per riconvertire ecologicamente ed economicamente l’intero territorio, liberandola dalla morsa delle fabbriche che devastano il territorio, inquinano, provocando malattie e morti. La transizione energetica parta da qui!”

* * * * *

Tale drastica presa di posizione, sostenuta dal Collettivo Diem25 di Taranto, ha l’appoggio incondizionato  di DiEM25 Italia, specialmente alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni.

Mentre il Governo dibatte su come concedere nuovamente l’immunità penale (un’aberrazione giuridica) a chi guida l’ILVA di Taranto, Arcelor Mittal cita in giudizio l’amministrazione straordinaria dell’ILVA perché sia dichiarato il suo diritto a recedere dal contratto di affitto dello stabilimento.

Quel contratto era teso a tutelare tre interessi: la continuità aziendale del maggior impianto siderurgico d’Europa, l’esecuzione del piano ambientale per la messa in sicurezza dell’impianto, il parziale mantenimento dei livelli occupazionali.

All’esito dell’incontro di ieri con il governo, Arcelor Mittal scopre le carte e candidamente afferma che la sua reale pretesa non è nemmeno soltanto l’immunità penale, ma la possibilità di dichiarare 5000 esuberi, sugli 8.200 dipendenti rimasti all’esito degli esuberi già concessi.

E allora è necessario una volta per tutte affrontare la questione nella sua complessità e nella sua storia. La cattedrale nel deserto è nata per volontà dello Stato e su investimento pubblico. Sin dalla sua realizzazione si sono levate voci che denunciavano l’astrazione dal territorio della mastodontica opera industriale: Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, già nel 1972 denunciava dalle pagine del Corriere della Sera l’assurdità di concepire la vita di una città intorno a uno stabilimento industriale a così alto impatto ambientale. Intanto, nella Taranto dove l’industria militare era in dismissione e la crisi imperava, arrivava la grande industria di stato, si riattivava il porto, arrivava lavoro.

Una fabbrica strategica che garantiva sicurezza e riscatto sociale.

A quale prezzo?

Quello di un riscatto sociale fondato sul ricatto sociale.

Bisogna uscire dal ricatto che impone di scegliere tra lavoro e ambiente, tra sicurezza e diritti, tra salute e sviluppo.

Bisogna chiedersi quale sia il valore strategico della produzione di acciaio oggi, considerato il fatto che l’offerta supera gia’ abbondantemente la domanda a livello mondiale e che, se questa produzione ha un valore, vanno radicalmente cambiati i processi produttivi. Ma non più a spese delle popolazioni e dei territori la cui tolleranza è ormai satura, sia ai livelli di ricatto che a quelli di inquinamento. 

Lo Stato italiano e i Paesi membri dell’Unione Europea, che hanno beneficiato della prossimità della produzione di acciaio, hanno un debito incalcolabile nei confronti di Taranto.

Un territorio la cui esistenza è dipesa integralmente dall’unico stabilimento europeo a ciclo integrale, in cui entrano materiali e polveri ferrose ed esce acciaio, passando per area a caldo, area a freddo e tutto ciò che c’è nel mezzo: dall’utilizzo delle acque all’esposizione a rischi mortali per vite umane e per l’ecosistema.

Se non c’è la volontà – non certo la capacità – di effettuare una reale conversione dell’impianto da parte di chi lo guida, una multinazionale leader nel mondo nel settore siderurgico, si comprende oggi con chiarezza che chi denunciava Arcelor Mittal di voler semplicemente eliminare un competitor dal mercato aveva ragione.

E allora, invece di perpetuare l’agonia dell’Ilva continuando a sostenere costi insostenibili – la salute delle persone, i danni ambientali, un ciclo produttivo vecchio di cinquant’anni, tesi giuridiche prive di qualsiasi fondamento – nazionalizziamo (di nuovo) lo stabilimento, recuperando il danno eventualmente cagionato dall’inadempimento di Mittal e investendo nella bonifica e nella riconversione economica del territorio.

Si può fare e l’Unione Europea potrà e dovrà essere di supporto, soprattutto considerando che gli investimenti pubblici effettuati nelle regioni del Mezzogiorno sono di circa il 20% inferiori rispetto all’impegno che l’Italia ha assunto con l’Unione Europea e che, senza un radicale cambio di rotta, per l’Italia si profila un taglio delle risorse europee che al momento ammontano a circa 44 miliardi di Euro.

Cosa stiamo aspettando?

DiEM25 Italia, Dsc Taranto

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