Il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, visto da Parigi

Paola Pietrandrea – DiEM25 France
 
 
Al ballottaggio di queste elezioni presidenziali, i francesi si troveranno a scegliere tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron.
La prima dà voce alle fasce più deboli del paese: quelle che hanno perso ogni riferimento in quest’epoca disruptiva fatta di globalizzazione sfrenata e automatizzazione senza governo e che sperano di lenire le loro paure rifugiandosi nel grembo di una destra sovranista, protezionista. Una destra nostalgica di una mitica età dell’oro in cui la Francia era opulenta e generosa e poteva dirsi genuinamente francese.
Il secondo rappresenta, invece, quell’estremo centro che obbedisce, più o meno sinceramente, al mito efficientista, scientista e modernista con il quale il capitalismo tiene in riga i suoi ingranaggi da decenni. Spregiudicato, disinvolto, brillante, il giovane Emmanuel si presenta come l’uomo che sa starci in questo mondo impazzito, capace com’è di piegarsi, ma con abilità e astuzia, ai diktat di quello che possiamo chiamare l’establishment.
Nel suo programma, Macron, si dichiara pronto a continuare la politica d’austerity imposta dal governo di cui ha fatto parte, affiancandovi al contempo un piano ambizioso d’investimenti per la transizione verde e la modernizzazione dell’amministrazione pubblica; si dichiara pronto a ridare forza al potere d’acquisto delle classi più deboli, scegliendo però di sollevarle proprio dal contributo alla spesa sociale destinate a proteggerle; si dichiara pronto a creare un’assicurazione statale contro la disoccupazione, escludendo però dalla protezione sociale chi mostrasse di approfittarsi del sistema.
 
Fedele all’Europa dello status quo, Emmanuel Macron, promette di non scalfire il sogno di un mondo a venire la cui complessità sarà dominata dalle donne e dagli uomini liberi e vincenti, che saranno capaci di flessibilità, dinamicità e intraprendenza.
 
Si direbbe, visto il risultato preliminare di questa campagna presidenziale che i progressisti francesi offrono di sé un’immagine desolante. Né Hamon, né Mélenchon sono stati capaci – e per ragioni molto diverse – d’intercettare e rappresentare un movimento profondo della società civile francese, che procede nonostante le sfortune elettorali, gli inciampi e i fallimenti istituzionali.
Sussulti di questa società civile progressista si sono visti nel 2016 nella tenacia del movimento delle Nuit Debout, come nell’imponente lotta contro quella limitazione delle garanzie statali nella negoziazione tra lavoratori e imprese nota come Loi Travail.
Ma questa società civile progressista esiste e persiste anche nel quotidiano di milioni di cittadini francesi, impegnati a dare vita da decenni a quella istituzione immaginaria della società preconizzata dal filosofo Castoriadis. La società civile progressista francese costruisce in una rete brulicante distribuita in decine di migliaia di sedi di dibattitto perennemente operative e caratterizzate da una pratica salda della democrazia partecipativa (consigli di scuola, di quartiere, associazioni, mozioni si strada, cine-conferenze, iniziative, progetti, petizioni, movimenti, campagne) una visione comune del mondo che verrà.
 
L’arte, il cinema, l’editoria, la scienza, la filosofia, la cultura francese, sono saldamente dalla parte di questa visione progressista: pensiamo a opere cinematografiche come Demain, En quête de sens, Etre et devenir, Tout s’accèlere, Le potager de mon père, Opération Correa), alle pubblicazioni di case editrici militanti, come La Fabrique o Les Prairies Ordinaires, pensiamo alle colonne dei blog ospitati da Le Monde diplomatique, o Mediapart, pensiamo alla riflessione anti-liberista degli economisti attérés, alle lotte creative dei collettivi Génération Precarie et Jeudi Noir.
 
Qual è la visione comune che sta elaborando la società civile progressista francese? E perché non c’è stata rappresentanza di questa visione nella campagna presidenziale?
 
Accettando, come suggerito da André Gorz, di pensare separatamente le questioni della libertà e del lavoro, la società civile progressista francese sta imparando a guardare con serenità alla fine dell’impiego imposta dall’automatizzazione e si attrezza per il mondo post-crescita – se non più radicalmente post-capitalista – che verrà, un mondo in cui le energie sottratte all’impiego saranno rinvestite nell’impegno civile, nello scambio di servizi tra pari, nella ricostituzione dei legami di prossimità e fiducia (che potranno dar vita a monete o micro-crediti locali,) nella circolazione orizzontale e distribuita delle conoscenze, nella riscoperta dei saperi fondanti dell’umanità appaltati ormai da decenni all’industria, (primi fra tutti, l’agricoltura e la preparazione di cibi), nel ritrovamento di una felicità solidale, indipendente dal consumo.
Quest’utopia di transizione è in realtà già pratica concreta in migliaia di “realtà locali”: i consumi si sono ridotti a seguito della crisi, l’economia collaborativa, vera (non quella uberizzata) è pratica corrente, e sono innumerevoli i gruppi di acquisto, le cooperative alimentari, gli orti condivisi, i laboratori di riparazione d’oggetti, le monete locali, gli atelier autogestiti, così come le riconversioni professionali che spingono tanti ad abbandonare i cosiddetti bullshit jobs al servizio del capitale a vantaggio di mestieri tradizionali legati all’artigianato, la salute, l’agricoltura.
La politicizzazione estrema e totalizzante che pervade la vita di milioni di cittadini progressisti francesi rende paradossalmente ancora più chiaro l’abisso che separa questo mondo libero che si prepara, dalla politica ufficiale ancorata ai riti settecenteschi della democrazia rappresentativa, svuotati peraltro della nobiltà che tradizionalmente li aveva caratterizzati.
 
Non è bastato quindi a convincere questi cittadini progressisti, per quanto sincero, il discorso di Benoît Hamon, impigliato com’era nelle contraddizioni e nei veleni del Partito Socialista. Né è bastato, per quanto egalitario, il discorso di Jean-Luc Mélenchon, in bilico tra un’utopia balbettata e una tentazione di ripiegamento protezionista e isolazionista, in odore più di regresso che di progresso.
 
Dunque?
 
Dunque, la radicalità della società civile progressista francese deve innanzitutto farci tenere alta la guardia per il secondo turno. Non pensiamo ingenuamente che quei cittadini si tureranno il naso per non votare Le Pen. Dovremo convincerli che, come scrivono Lorenzo Marsili e Yanis Varoufakis, “non esistono uscite progressiste e felici all’interno di un sistema inceppato che produce solo miseria, rancore e rigetto dell’altro e del diverso… l’araba fenice in politica è un animale mostruoso e assassino”. Dovremo convincere i nostri amici francesi che il mantenimento dello status quo rappresentato da Macron sarà necessario per evitare la dispersione del patrimonio di conquiste civili, umanitarie e sociali che il fascismo usa polverizzare.
In secondo luogo, dovremo più che mai lavorare a creare un’unità dei progressisti, a tentare di comporre attraverso un dialogo profondo e aperto capace di superare il riflesso della personalizzazione della politica, le fratture e le contraddizioni che paralizzano tutti i partiti social-progressisti così come sono configurati attualmente. Quest’unità, per la Francia, dovrà manifestarsi già in accordi elettorali per le prossime legislative, elezioni che nei fatti determineranno la capacità di governo del presidente che sarà eletto.
In terzo luogo, dovremo imparare ad ascoltare seriamente la voce della società civile, in Francia come altrove, immaginando come si possano articolare le sue pratiche, le sue istanze, le sue utopie locali e spontanee con pratiche di governo più istituzionali e globali.
 
Prepariamoci però: la strada è lunga e sembra proprio che i tempi continueranno ad essere maledettamente interessanti.

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