L’11 novembre l’ormai esiliato presidente della Bolivia, Evo Morales, ha annunciato le proprie dimissioni a seguito dell’improvvisa ondata di violenza che ha pervaso la capitale La Paz. Le masse in rivolta contro Morales sembrano essere riuscite a cavalcare la corrente delle recenti mobilitazioni popolari (seppur diverse o persino opposte nelle motivazioni) che da settimane continuano a tenere paralizzato il confinante Cile di Piñera o, oltreoceano, il territorio autonomo di Hong-Kong. Ma la matrice della presunta rivolta “dal basso” che si sta verificando in Bolivia è di tutt’altra natura rispetto ai casi appena menzionati, e più che ad una radicale e democratica manifestazione di volontà popolare sembra piuttosto dare adito alle istanze della ristretta e territorialmente concentrata élite economica del paese, le cui volontà fino al 2006 venivano rispecchiate dalle (o dalla mancanza di) politiche macroeconomiche condotte dai predecessori di Morales. Alle svolte impresse da quest’ultimo sono per molti versi storicamente paragonabili solo le riforme rivoluzionarie del presidente Victor Paz Estenssoro, fondatore del MNR (Movimiento Nacionalista Revolucionario), che negli anni 50 nazionalizzò le principali risorse energetiche del paese e varò una coraggiosa riforma agraria, finendo defenestrato, nel 1964, dopo tre mandati, non per caso anche lui da un golpe militare.
Crescita economica, riscatto della popolazione indigena, culto della personalità – quali sono le tappe dell’era Morales?
Fu proprio nel 2006, 8 anni dopo aver fondato il Movimento al socialismo (MAS) e avere fatto capo a numerose lotte sindacali, che Evo Morales venne eletto presidente della Bolivia. Fu un momento eclatante, dalla portata storica, non soltanto per l’inedita mobilitazione popolare che condusse Morales al seggio presidenziale, ma soprattutto perché per la prima volta, nella sua storia coloniale e post-coloniale, il paese andino vedeva la massima carica istituzionale essere ricoperta da una persona indigena, un aymara. Fu la vittoria di una lotta di classe, oltre che culturale. Questo perché le disparità economiche su base etnica hanno per secoli segnato la storia e il percorso economico boliviani. Nel 2001, per esempio, una persona indigena guadagnava in media 300 bolivianos al mese, mentre una persona non indigena, bianca o mestiza, ben 480.
Una delle ragioni che spiegano il divario salariale tra indigeni e non è la distribuzione professionale (e territoriale) della popolazione, che vede i primi occuparsi prevalentemente di agricoltura e i secondi, concentrati nelle aree urbane, egemonizzare i settori professionali più privilegiati.
Va dunque specificato che la composizione demografica del paese è sempre stata ben diversa da quella che potrebbe suggerire la lista dei presidenti che per 500 anni si sono susseguiti nel governo di una terra ricca di risorse petrolifere e minerarie che continuano a rivelarsi preziose anche in una prospettiva futura, essendo la Bolivia il paese che detiene il 30% delle riserve mondiali di litio; una ricchezza di risorse che tuttavia in passato non è mai stata impiegata per finanziare lo sviluppo economico del paese e che è stata sfruttata da corporazioni e potenze economiche straniere con la mediazione interessata e corrotta dell’oligarchia locale.
L’ascesa al potere di Morales è dovuta proprio alla presa di coscienza da parte dello strato sociale più povero e discriminato del paese – al tempo la maggioranza assoluta della popolazione nonché composto, si badi, nella quasi totalità da indigeni – che nei primi anni del millennio si rese protagonista di manifestazioni e scioperi in cui si richiedeva la nazionalizzazione degli impianti di estrazione di idrocarburi a favore della collettivizzazione dell’esorbitante profitto generato dall’industria petrolifera e del gas naturale operante nel paese. Una lotta popolare che culminò nella fatidica data del 22 gennaio del 2006, giorno in cui Evo Morales venne eletto presidente di un paese lacerato dalle disuguaglianze, dalla povertà e da una politica economica piegata a volontà terze, completamente estranee e disinteressate alle prime necessità della maggioranza della popolazione. Rispetto ad allora la Bolivia è un paese trasformato, radicalmente cambiato nell’approccio che le istituzioni pubbliche adottano nei confronti di quei cittadini che fino ad allora ne subivano l’incuria per il benessere sociale e l’intrinseco carattere discriminatorio.
Lo straordinario progresso che ha coinvolto il paese in termini di miglioramento delle condizioni di vita e di ampliamento dei diritti sociali è un dato di fatto. Lo confermano tutti gli indicatori che normalmente vengono considerati per misurare il grado di sviluppo economico e sociale di un paese. Il lascito del governo del Movimento al Socialismo è dunque da ritenersi un successo a prescindere dalle chiavi di lettura e dai parametri di giudizio che si vogliano impiegare. Dalla crescita del PIL alla riduzione delle disuguaglianze, passando per lo sradicamento dell’analfabetismo e la lotta alla povertà, i successi che hanno segnato l’esperienza di governo degli ultimi 14 anni sono di un’onnicomprensività inaudita. Si badi però che l’era Morales non ha trasformato la fondamentale struttura capitalista e di mercato del paese, ha però reso possibile una redistribuzione più equa e giusta della ricchezza, ha introdotto elementi regolatori che potremmo definire keynesiani, ha nazionalizzato le ricchezze naturali e iniziato a costruire lo stato sociale, favorendo lo sviluppo di una classe media, in passato quasi inesistente nel paese.
Tabella raffigurante le variazioni nell’indice di GINI, relativo alla Bolivia, dal 2005 al 2017; coefficiente usato per calcolare il grado di disuguaglianza del reddito in un paese.
Gli sforzi di Morales nel rendere più accessibili le strutture educative attraverso una serie di programmi mirati all’alfabetizzazione di tutte le fasce d’età (es. Yo, sí puedo) hanno diminuito drasticamente, con plauso dell’Unesco, la percentuale di analfabetismo nel paese, che nell’arco di 12 anni, dal 2006 al 2018, è piombata dal 13% al 2,4%. Oltretutto, la Bolivia è oggi il paese con la più bassa percentuale di disoccupati in tutta l’America Latina, con un tasso di disoccupazione che dal 2006 ad oggi è sceso dal 9,2% a meno del 4%. La povertà relativa è scesa dal 60,4% al 34,6%, quella assoluta dal 38,2% al 15,2%. Dati folgoranti, che altro non sono che la conferma del successo di una politica inclusiva, efficace e improntata alla giustizia sociale. Non è infatti un caso che Evo Morales tutt’oggi, dopo quasi 14 anni passati alla presidenza, continui a godere di un sostegno popolare a dir poco diffuso.
Tuttavia, per comprendere fino in fondo le dinamiche che hanno portato al colpo di stato dell’11 novembre, è importante evidenziare e analizzare il recente calo di consensi nei confronti dell’ormai deposto presidente, registratosi dapprima nel referendum per la riforma costituzionale del 2016 e che è recentemente culminato nella risicata rielezione di Morales al primo turno dell’ultimo appuntamento elettorale (Morales vinse le elezioni precedenti ottenendo il 61% dei voti). Un’erosione del consenso che ha sicuramente facilitato la campagna di delegittimazione condotta negli ultimi mesi, con particolare intensità, dalla destra politica e da gruppi paramilitari di estrema destra a sfondo razzista e religioso come quelli della regione autonomista di Santa Cruz, ricca di giacimenti petroliferi e di produzione agricola, a cui fa capo il milionario Luis Fernando Camacho, considerato da molti il “Bolsonaro boliviano”. Una campagna basata su disinformazione e fomentazione dell’odio razziale che, anche grazie alla ripugnante complicità dei principali attori internazionali e di gran parte dei mainstream media, sta subdolamente ma con successo veicolando le istanze di una ristretta élite economica, servendosi di un colpo di Stato militare dalla parvenza popolar-rivoluzionaria.
I passi falsi di Morales
L’effetto che il potere può esercitare nei confronti di colui che lo detiene è spesso di natura accecante. Occupare il seggio presidenziale significa farsi carico di immani pressioni materiali e psicologiche che, soprattutto in un paese come la Bolivia, in cui l’assetto istituzionale democratico tutt’ora non affonda radici sufficientemente profonde nella società civile, facilmente compromettono l’incorruttibilità morale dei governanti. Nel caso di Morales, l’incontestata popolarità e la longevità che ne ha caratterizzato la permanenza ai vertici della nazione sono probabilmente due dei principi attivi della ricetta che ha causato l’overdose di smania di potere, culto della personalità e, in certi casi, megalomania del presidente boliviano; caratteristiche su cui spesso e volentieri si concentrava il coro di voci dissidenti. A Morales va inoltre obiettato di aver disatteso, nella sua rincorsa affannata allo sviluppo economico, la salvaguardia dell’ambiente, permettendo alle compagnie petrolifere concessionarie di pianificare il disboscamento in alcune aree protette per lo sfruttamento degli idrocarburi. Ciò ha provocato la reazione di varie comunità locali e delle ONG ambientaliste.
È altresì vero che si tratta di errori, forzature e distorsioni personalistiche che mai sono sfociate nell’autoritarismo vero e proprio, e che non hanno mai superato i limiti legali a cui il presidente è tenuto a vincolarsi. Tuttavia, il passo falso che con ogni probabilità gli è costato una grande fetta della propria base di supporto e gli è (paradossalmente) valso il soprannome “dittatore” è stato il mancato rispetto dei risultati del referendum costituzionale che Morales stesso aveva fortemente voluto. Referendum che avrebbe dovuto sancire l’avvallo popolare della proposta di eliminare il vincolo di mandato che non concedeva a Morales la possibilità di concorrere nuovamente alla presidenza, e che nel caso della Bolivia limitava il presidente a due sole ricandidature consecutive dopo la prima investitura.
A seguito del referendum Morales, che inizialmente si dichiarò disposto ad accettare la volontà popolare espressa nel voto referendario, decise di sottoporre la proposta alla corte suprema, la quale dichiarò l’incompatibilità costituzionale del vincolo di mandato, appellandosi alla Convenzione americana sui diritti umani. Fu così che che nacquero le condizioni giuridiche che consentirono a Morales di presentarsi per la quarta volta consecutiva alle elezioni presidenziali.
Gli sfidanti di Morales
Garantirsi la partecipazione alle elezioni ha in pratica portato Morales ad avere già un piede nell’ufficio presidenziale ancor prima dell’avvio della campagna elettorale. Difficilmente un qualsiasi candidato concorrente sarebbe mai stato in grado di ritagliarsi la stessa visibilità e soprattutto di fare propria una campagna alternativa sufficientemente convincente da mettere in discussione la leadership del presidente in carica. Tanto più se si considerano le opzioni in gioco. Infatti, i principali due sfidanti che si sono presentati alle elezioni oltre a Morales sono Carlos Mesa e Chi Hyun Chung, due figure ben note alla società boliviana, entrambe però adombrate da un passato politicamente non immacolato.
Il primo, già presidente della Bolivia e candidato del partito moderato Comunità Civica, venne da subito considerato come l’unica potenziale minaccia per Morales, dato l’approccio relativamente inclusivo e conforme alla prassi politica liberale, patrocinata dalle più influenti organizzazioni sovranazionali e dalla comunità atlantica. Resta però il fatto che Mesa viene ancora impopolarmente ricordato per la mancanza di coraggio dimostrata quando nei primi anni 2000 decise di anteporre le preferenze del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale alla volontà (espressa tramite un referendum) della maggioranza del popolo boliviano sul tema delle nazionalizzazioni degli idrocarburi. Una scelta che lo portò, dopo un’escalation di tensioni sociali e prolungati periodi di proteste, a dimettersi – cedendo il posto proprio a Morales.
Il terzo candidato in ordine di popolarità, Chi Hyun Chung, coreano di nascita, è un dottore e pastore evangelico ultraconservatore che ha visto la propria campagna relegata ai margini della competizione sin dall’inizio.
Si è trattato di un periodo pre-elettorale non particolarmente avvincente, che ha visto il presidente in carica sprecarsi più volentieri del solito in attività autocelebrative e apparendo con più frequenza sui media nazionali e internazionali. Mesa ha invece cercato di guadagnare consensi denunciando la deriva autoritaria di un presidente che a detta sua non avrebbe rispettato il volere popolare. Peccato che 15 anni fa fu proprio lo stesso Mesa a indire un referendum che a sua volta non fu rispettato.
Le elezioni: il complicato sistema di scrutinio, le presunte irregolarità e il ruolo dell’OAS
Bisognerà aspettare fino alla sera del giorno delle elezioni per assistere allo scoppio dei tumulti che da lì a poco avrebbero compromesso il controllo democratico della fragile macchina statale boliviana. Ma per completare la contestualizzazione è utile considerare una peculiarità di cui si veste la procedura di conteggio dei voti in Bolivia.
È infatti consuetudine che il giorno delle elezioni il Tribunale elettorale boliviano intraprenda due conteggi paralleli: uno ufficiale e uno “veloce” (TREP). Quest’ultimo viene effettuato per ridurre il lungo periodo d’attesa che uno scrupoloso scrutinio richiederebbe in un paese come la Bolivia, dove diverse regioni presentano significative differenze per quanto concerne i tempi di reperibilità delle schede elettorali. Si tratta di un sistema, la cui implementazione viene raccomandata dall’OAS (Organizzazione degli Stati Americani), che fondamentalmente consente alle testate giornalistiche di riportare in tempi celeri una prima stima degli esiti delle elezioni.
Un sistema che secondo molti rischiava di creare situazioni confusionali, soprattutto nel caso ci si fosse trovati in uno scontro elettorale ravvicinato. Ed è proprio quello che è accaduto il 20 ottobre scorso in Bolivia. Quando il conteggio veloce aveva ormai raggiunto l’83,85% dello scrutinio, l’autorità elettorale boliviana ha deciso di concedere una prima conferenza stampa in cui sono stati enunciati i risultati parziali del, si badi, conteggio (cosiddetto) veloce. Le percentuali rese note a questo punto vedevano Morales ottenere il 45,7% dei voti, seguito da Mesa con il 37,8% ad un margine di distacco del 7,9%. Un risultato del genere, se confermato, non avrebbe assicurato la vittoria a Morales, che si sarebbe visto obbligato ad affrontare Mesa al secondo turno (ricordiamo che per vincere al primo turno un candidato deve ottenere più del 50% dei voti o, in alternativa, almeno il 40% dei voti con un distacco minimo di 10 punti percentuali dal secondo classificato). A quel punto, una superficiale copertura mediatica si è resa autrice di un’infausta fuoriuscita di false dichiarazioni, che affermavano la certezza del passaggio al secondo turno di voto, plasmando anticipatamente ma soprattutto erroneamente le aspettative di tutti. A seguito della conferenza stampa il conteggio veloce è stato fermato poiché il conteggio ufficiale era già stato avviato. Sarà proprio questa decisione a fare scaturire le sterili accuse secondo cui le elezioni avrebbero peccato di credibilità, insinuando che quest’ultime fossero state soggette a manipolazioni governative. Manipolazioni che si sarebbero rese evidenti proprio con la cessazione del conteggio veloce, per il quale però già in precedenza era prevedibile che non sarebbe stato completato. Infatti, tale scelta si pone pienamente in linea con la prassi affermatasi laddove lo stesso sistema è stato adottato. È consuetudine che il conteggio veloce non venga completato; cosa del tutto scontata data l’incompatibilità che intercorre tra i tempi da rispettare che questo tipo di conteggio richiede e l’inaccessibilità di alcune zone del paese. Oltretutto, il conteggio veloce non è giuridicamente vincolante, ma si tratta esclusivamente di uno strumento di carattere ufficioso, volto ad offrire più rapidamente un’anteprima dei risultati.
Bisognerà aspettare il 25 ottobre per la pubblicazione dei risultati ufficiali, i quali sanciranno la vittoria di Morales con un margine del 10,5% dal secondo classificato Carlos Mesa, attribuendo all’esponente del MAS la vittoria al primo turno. Si consideri che nel conteggio, sia in quello veloce che in quello ufficiale, i ritardi si riferivano soprattutto alle aree rurali e indigene, dove più elevato è l’appoggio al presidente aymara.
Naturalmente, l’inatteso cambio di rotta registrato dal conteggio ufficiale (che non è mai stato interrotto) rispetto al risultato previsto dai primi dati forniti dall’ancora incompleto conteggio veloce ha da subito indotto gli esponenti dell’opposizione ad accusare Morales di essersi garantito la vittoria ricorrendo ad azioni illecite. Le stesse accuse gli verranno da lì a poco attribuite anche dai principali attori internazionali, tra cui anche l’Unione europea e gli Stati Uniti, i quali non potranno esimersi dall’esprimere un giudizio basato su conclusioni tratte da una lacunosa investigazione condotta dall’OAS (Organizzazione degli Stati Americani), culminata in un rapporto in cui veniva espressa preoccupazione per le presunte irregolarità che avrebbero segnato il processo elettorale boliviano. Affermazione, quest’ultima, che ha ulteriormente polarizzato il discorso pubblico riguardo ad una situazione già di per sé instabile e che ha posto le basi per la definitiva destabilizzazione del paese.
Era stato lo stesso Morales, una volta terminato il conteggio, ad invitare di sua spontanea volontà una delegazione dell’OAS in missione per verificare la regolarità delle elezioni, dichiarando di “non avere nulla da nascondere”. 92 membri dell’OAS hanno così raggiunto la Bolivia, distribuendosi nelle sedi di 9 dipartimenti elettorali in cui avrebbero dovuto condurre tutte le ricerche necessarie al fine di stabilire se le elezioni si fossero svolte regolarmente o meno. La visita della delegazione si concluse con una dichiarazione supportata da scarsa evidenza empirica, ma dotata di un’enorme potenziale politico, che difatti servirà da giustificatore morale ai sostenitori dell’opposizione golpista. Infatti, a detta dell’OAS, il conteggio ufficiale presentava degli esiti “difficili da spiegare”. Un’uscita di un peso tale da necessitare di un’argomentata spiegazione che ne giustificasse l’inevitabile contraccolpo; spiegazione che tuttavia non vedrà mai la luce. Le conclusioni del rapporto verranno successivamente smentite e contraddette dal rapporto sulle elezioni in Bolivia del CEPR (Center for Economic and Policy Research), quest’ultimo, al contrario, ricco di evidenza empirica e di dettagliate analisi che dimostrano che nessuna irregolarità ha di fatto compromesso le elezioni del 20 ottobre.
Ciononostante, a causa dell’insostenibile pressione internazionale e di un’escalation di violenza che ha coinvolto la capitale La Paz, Evo Morales si è immediatamente detto disposto a ripetere le elezioni, questa volta da svolgersi anche sotto sorveglianza internazionale. L’ennesima prova di trasparenza che tuttavia non è bastata per placare gli umori di un’opposizione che già aveva iniziato a fiutare la possibilità di spodestare, anche illegittimamente e facendo affidamento a qualsiasi mezzo disponibile, il leader indigeno.
Una finta rivolta popolare capeggiata da pericolosi criminali
Non c’è bisogno di una mente acuta e dotata di elevate capacità analitiche per individuare il solco che fin dallo scoppio delle manifestazioni divide i sostenitori di Morales dall’opposizione capeggiata da Luis Camacho e dai suoi sodali. Se da un lato il primo si è fatto garante delle pari dignità dei popoli che abitano la Bolivia, attuando politiche di pace e di inclusione sociale, fondando lo Stato Plurinazionale della Bolivia nel rispetto di un paese che fino ad allora aveva di fatto discriminato i propri cittadini dividendoli in categorie di serie A e di serie B, il secondo da anni rappresenta le istanze del fondamentalismo religioso e della parte più benestante della classe imprenditoriale boliviana; quella classe, per intenderci, composta quasi interamente da persone di origine europea, creola o meticcia, che per decenni se non per secoli ha monopolizzato il controllo delle principali risorse economiche della Bolivia. Lo stesso Camacho, soprannominatosi “Macho Camacho”, è un milionario, fervente evangelista, indagato per lo scandalo Panama papers, proprietario dell’impresa petrolifera di famiglia, azionista di società come Conecta, Tecorp, Xperience, Fenix Seguros, Nacional Seguros Vida e Metropolitan Clinic of the Americas project. È questo l’identikit di colui che in realtà rappresenta un intricato ma potente conglomerato di ristretti interessi economici, religiosi, geopolitici e ideologici, la cui affermazione viene sovente imposta con modalità incivili e antidemocratiche.
Già prima del compimento del colpo di stato vero e proprio, i gruppi paramilitari a cui fa capo Camacho avevano dato prova della loro barbarie (fomentata da un insaziabile desiderio di vendetta contro il popolo indigeno) aggredendo e umiliando pubblicamente la sindaca filogovernativa della città di Vinto, Patricia Arce, la quale è stata dipinta di rosso e a cui sono stati forzatamente tagliati i capelli, il tutto accolto dal complice silenzio della comunità internazionale. Una delle componenti più influenti all’interno dell’esercito di Camacho è la Unión Juvenil Cruceñista, un movimento giovanile, indipendentista, di estrema destra, presente soprattutto nel dipartimento di Santa Cruz e di cui il dissidente impresario è stato vicepresidente dal 2002 al 2004. Un movimento conosciuto per avere pianificato nel 2008 un attentato al presidente Morales e per avere in più di un’occasione fatto ricorso alla violenza per intimidire gli esponenti della sinistra boliviana. Oggi, a poco più di una settimana dal colpo di stato, le istanze di questo gruppo della morte sono riuscite a insinuarsi nei corpi di polizia, trovando così legittimità istituzionale. Non c’è quindi da sorprendersi se l’illegittima presidente Jeanine Áñez, oscura esponente di un partito dell’estrema destra con il 4% dei consensi e che non ha mai fatto segreto di disprezzare la popolazione indigena, e che si è insediata per sola volontà dell’esercito, ha recentemente garantito l’immunità agli organi militari e della polizia boliviani, dotandoli della licenza di uccidere nella campagna di repressione che le forze golpiste stanno conducendo a Cochabamba nei confronti dei contadini che, manifestando con coraggio, continuano a resistere al colpo di stato e tra cui si contano già più di 30 vittime. Oltre ad essersi macchiati le mani di sangue, i membri delle forze armate hanno anche impedito ai democraticamente eletti deputati del MAS di partecipare alle sessioni parlamentari della nuova legislatura, rifiutandosi di garantire loro l’incolumità.
I complici internazionali del colpo di stato
A chi avrebbe potuto mai dare fastidio un governo socialista coronato dal successo, perdipiù se democraticamente eletto in un paese dell’America Latina ricco di risorse naturali, tra cui anche il 30% delle riserve mondiali di quello che sempre più frequentemente viene definito “l’oro bianco del futuro”, ossia il litio?
Difficilmente a qualcuno la domanda non parrà retorica, a prova del fatto che la Bolivia è un paese su cui convergono gli interessi delle più grandi potenze economiche del pianeta e il cui successo rischiava di screditare ulteriormente la propaganda di taglio maccartista di cui tutt’oggi veniamo quotidianamente nutriti. La politica di Morales consisteva in una distribuzione equa dei frutti generati da una ricchezza naturale considerata troppo preziosa da non essere soggetta al controllo pubblico. Negli ultimi anni, a seguito della nazionalizzazione dei settori chiave del paese e attraverso una serie di programmi di sviluppo territoriale e della persona, la Bolivia ha registrato tassi di crescita che farebbero impallidire qualsiasi altro capo di stato (non solo sudamericano). L’evidente successo ha portato perfino il Fondo monetario internazionale a definire la Bolivia un “modello di stabilità”. La cosa più sorprendente è che molto probabilmente il vero boom economico della Bolivia doveva ancora arrivare. Nel 2016 nel paese andino ebbe inizio l’estrazione commerciale del litio, “con le prime 60 tonnellate inviate in Cina sotto forma di litio carbonato o litio idrossido” (“Bolivia: il nuovo petrolio, la Germania e la fuga di Morales”, da Landriano, 2019, www.scenarieconomici.it). Ma estrarre il litio nel Salar de Uyuni, il più esteso deserto di sale, in cui è presente gran parte delle riserve mondiali di litio, richiede l’uso di tecnologie avanzate che rendano gli impianti di estrazione efficienti e non eccessivamente inquinanti, oltre che lavoratori altamente qualificati in grado di gestirli. Fu la constatazione di questi “limiti” che indusse Morales a dare vita nel 2017 a nuove sinergie di investimento che prevedevano l’entrata dello Stato boliviano in una joint-venture con l’azienda tedesca ACISA. Al termine delle trattative tra i due partner economici, che giunsero ad un accordo che sembrava avere soddisfatto entrambe le parti, i movimenti sindacali della regione in cui si sarebbe dovuta svolgere l’estrazione si ribellarono per la mancanza di garanzie formali a tutela del benessere della popolazione autoctona e per la percentuale dei profitti, considerata troppo bassa, il 3%, destinata alla comunità locale, mentre il grosso sarebbe stato incassato dallo Stato. Evo Morales si vide ben presto costretto a ritirare la Bolivia dall’accordo. Una grande occasione persa per la Germania. La stessa Germania che, sorprendentemente ma non troppo, non condannò assieme al resto dell’Unione europea il colpo di stato dell’11 novembre.
Decisamente meno sorprendente è in questo caso il ruolo giocato dalla politica estera statunitense, che già dal 2001 osserva con preoccupazione l’attività prima sindacale e poi politica di Evo Morales. Da allora, ingenti somme di denaro sono state stanziate tramite l’USAID (L’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale) per finanziare partiti politici e “organizzazioni civili” di estrema destra che cospiravano contro il governo Morales. Tra i beneficiari delle donazioni compare anche anche il Comité pro-Santa Cruz (Comitato Civico pro-Santa Cruz), di cui Luis Camacho, uno dei leader del golpe, è attualmente presidente.
Per molti versi sintomatica è stata anche la visita di una delegazione economico-politica statunitense capeggiata dalla figlia del presidente Trump, Ivanka, un mese prima delle elezioni boliviane, alla provincia argentina, confinante con la Bolivia, di Jujuy, nel cosiddetto “triangolo del litio” (Argentina, Bolivia e Cile), invitata e accolta dal locale governatore Gerardo Morales i cui rapporti con Camacho e Santa Cruz sono ben noti. A molti osservatori la coincidenza della visita con gli eventi in Bolivia non è sfuggita.
Un altro dettaglio degno di nota riguarda il capo dell’esercito boliviano, il generale Williams Kalimán Romero, che ha prestato servizio come addetto militare negli Stati Uniti dal 2013 al 2016, e il capo della polizia, Vladimir Calderón, che ha a sua volta ricoperto il ruolo di “attaché” della polizia sempre negli States fino al 2018. È più che lecito a questo punto domandarsi quanto la permanenza nella “terra dei liberi” abbia influenzato l’agire di queste due persone, ed è altresì del tutto logico presupporre che i contatti tra quest’ultime e il Pentagono continuino a mantenersi anche in queste delicate fasi del rovesciamento del governo Morales.
Come se tutto ciò non bastasse, pochi giorni prima che si verificasse il colpo di stato vero e proprio c’è stata una fuoriuscita di registrazioni audio che sembrano coinvolgere nella pianificazione del colpo di stato addirittura alcuni senatori statunitensi, tra cui Bob Menendez (democratico) e gli ex candidati alla presidenza Ted Cruz (repubblicano) e Marco Rubio (repubblicano).
Infine, altro fattore di fondamentale importanza e che ha sicuramente contribuito al successo delle forze golpiste è la campagna di disinformazione condotta dai principali media occidentali nella copertura della crisi boliviana. Il loro ruolo sembra essere allo stesso tempo causa e sintomo dell’ambiguità che ha caratterizzato la risposta dell’Unione Europea e degli Stati Uniti a quello che a tutti gli effetti è un golpe militare. Il Wall Street Journal è arrivato persino a definirlo un “risveglio democratico” (“democratic breakout”), ma neppure alcune delle maggiori testate giornalistiche europee e italiane hanno avuto il coraggio di parlare apertamente di colpo di Stato. Gli occhi puntati sulle riserve di litio appartengono a persone che fanno capo a governi, corporazioni e holding estremamente ramificate, e da cui pochissimi media possono ritenersi del tutto indipendenti. Chi non nega l’evidenza per questioni ideologiche, lo fa perché la propria libera espressione è tenuta al guinzaglio dal Capitale.
La posizione di DiEM25 Italia
Il Collettivo Nazionale italiano di DiEM25 condanna fermamente il colpo di stato militare avvenuto in Bolivia a danno del legittimamente eletto presidente Evo Morales e degli esponenti del Movimento al Socialismo ed esprime piena solidarietà alla resistenza indigena a difesa della democrazia. Richiediamo che l’Unione europea e i singoli governi che la compongono riconoscano immediatamente l’illegittimità dell’autoproclamata presidente ad interim della Bolivia Jeanine Áñez e si impegnino a ripristinare lo Stato di diritto nel paese, agevolando la distensione della violenza e promuovendo un pacifico ritorno in patria dell’esiliato presidente Evo Morales.
Kosta Marco Juri, DSC Forlì1
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